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Sentire parlare dell’utilizzo del carbone – il combustibile fossile più inquinante in assoluto – come fonte energetica nel 2018 è anacronistico e quasi surreale.

Nella Strategia Energetica Nazionale è stata fissata al 2025 la data per l’uscita dal carbone in Italia assieme all’innalzamento degli obiettivi sulle rinnovabili.

Eppure nonostante questo accade che, in Sardegna, si discuta ancora della costruzione di una centrale a carbone e che a parlarne siano le istituzioni. Istituzioni che, invece, dovrebbero guardare al futuro, seguire le direttive europee sulla riduzione delle emissioni di CO2 nell’atmosfera e soprattutto tutelare la salute e la qualità di vita dei cittadini.

Le centrali termoelettriche che impiegano come combustibile il carbone emettono sostanze nocive con ricadute sanitarie pesantissime sulla popolazione.

Dalle ciminiere delle centrali a carbone vengono emesse diverse sostanze tossiche: non solo CO2 (che va ad incrementare l’effetto serra) ma anche metalli pesanti come arsenico, cromo, piombo, mercurio, polveri sottili e ultrasottili, diossine, anidride solforosa e biossido di azoto, Composti Organici Volatili (i VOC sono riconosciuti come cancerogeni dalla IARC), Isotopi Radioattivi naturali (responsabili prevalentemente di leucemie, linfomi e tumori del polmone), enormi volumi di ceneri residue.Le conseguenze possono essere gravissime: aumento di varie tipologie di malattie (in particolare malattie tumorali e cardiovascolari).

Già nel 2005 la Commissione Ambiente del Parlamento Europeo ha dichiarato che i lavoratori delle centrali a carbone e gli abitanti intorno alle centrali a carbone subiscono una maggiore esposizione alle radiazioni pari a 100‐150 microSv/anno, rispetto alla radioattività naturale di fondo.

Neanche con le centrali a carbone di nuova generazione (dotate di tecnologie quali filtri antiparticolato, desolforatori e denitrificatori), si è riusciti a risolvere il problema dell’inquinamento: la quantità di sostanze nocive emesse risultano comunque sempre molto alte e decisamente superiori rispetto a quelle, per esempio, di una centrale a gas.

Alla luce di questi dati, dunque, va analizzato il progetto della centrale a carbone proposto da Eurallumina nel Sulcis e l’aumento dei bacini dei fanghi rossi.

Secondo questa ipotesi il futuro di uno dei territori più martoriati della Sardegna dovrebbe essere ancora una volta segnato dall’inquinamento, dalla distruzione di quel che resta degli ecosistemi naturali e dall’avvelenamento dei cittadini.

Tutto questo per supportare una realtà (Eurallumina) che ha già fortemente rovinato il territorio anche con metodi non esattamente ortodossi, per usare un eufemismo.

Le emissioni nocive della centrale a carbone andrebbero, se dovesse passare il “Progetto di ammodernamento della raffineria di produzione di allumina ubicata nel Comune di Portoscuso, ZI Portovesme (CI)”, ad aggiungersi all’inquinamento derivante dalla produzione dell’alluminio e dall’ampliamento del bacino di fanghi rossi (quello stesso bacino sequestrato nell’ambito di un procedimento penale per gravi reati ambientali).

Fino a quando, dunque, saremo disposti a sacrificare la vita dei nostri figli per un posto di lavoro?

Questa storia ricorda tanto il sacrificio di Isacco, dove Dio chiede ad Abramo di uccidere suo figlio; in questo caso è il dio denaro che chiede di sacrificare le nuove generazioni, ma di sicuro nessuno interverrà alla fine per salvarli.

In tutto questo risulta paradossale il bipolarismo delle istituzioni regionali che, da un lato parlano di direttive comunitarie per la riduzione della produzione di CO2 e di uno sviluppo sostenibile senza combustibili fossili e dall’altra appoggiano la costruzione di una centrale a carbone.

Così come appare incomprensibile la totale chiusura nei confronti di eventuali progetti alternativi che potrebbero dare nuova vita e speranza al Sulcis creando occupazione senza distruggere l’ambiente e gli esseri umani.

Per esempio la bonifica dei siti inquinati (che occuperebbe centinaia di lavoratori per molti anni) o la possibilità di convertire la produzione dell’alluminio in un’attività di riciclo dell’alluminio stesso.

In particolare il riciclo dell’alluminio consentirebbe di risparmiare il 95% dell’energia necessaria per produrlo ex novo, di ridurre le emissioni nocive e i gas serra, eliminando anche gli oneri di smaltimento.

Entrambe le soluzioni creerebbero nuovi posti di lavoro e consentirebbero di porre fine ad un’era industriale fallimentare e fortemente impattante,proteggendo l’ambiente e la salute pubblica.

Siamo ancora in tempo per cambiare scenari e fare la cosa giusta, mettendo al primo posto la salute ed il benessere dei cittadini.

Non è necessario neanche grande coraggio, basta seguire gli orientamenti internazionali e quanto previsto da IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), Unione Europea e Strategia Energetica Nazionale.

Gruppo d’Intervento Giuridico onlus