ciao-piacere-di-conoscerti-scusa-e-addio
Questa è la storia di una ragazza che chiameremo Francesca per preservarne l'anonimato e del suo bambino mai nato. Questa, però, è anche la storia di una società nella quale si vive per lavorare e non il contrario, perchè chi un'occupazione ce l'ha non può permettersi di perderla. E' la storia di un'epoca nella quale la frenesia del consumismo ha fatto perdere di vista le cose veramente importanti nella vita. Questa, infine, è la storia di un mondo dove non c'è più spazio, anzi 'tempo', per i sentimenti.
 
 
"La prima volta che mi è capitato di sentirmi strana è stata un venerdì sera, uno dei miei pochi momenti di 'relax'. Una pizza con gli amici. Son talmente pochi ormai questi attimi di felicità, di 'semplicità', che parlare, divertirsi, RILASSARSI, mi appaiono quasi come un dovere. Ma cominciò a girarmi la testa. Pensai che effettivamente non avevo toccato molto cibo sino a quel momento e che mi sarei sentita meglio come avessi messo qualcosa sotto i denti, cercavo di concentrarmi perciò su quello che l'amico del mio compagno stava raccontando, perchè chissà per quanto tempo non mi sarebbe ricapitato di passare un paio d'ore con loro. 
 
Nel frattempo le giornate trascorrevano come sempre, con poco (anzi, pochissimo) tempo per me stessa. La mia vita girava intorno al lavoro, nei pochi momenti liberi dovevo occuparmi della casa per quanto riuscivo e fare un pò di jogging, quasi l'unico momento durante il quale potevo lasciar correre senza freno e senza preoccupazioni i miei pensieri.
 
'Pronto? […] Cavolo mamma, ma perchè mi chiami per queste stupidaggini? Lo sai che sto lavorando come un treno! Prendi quello che vuoi per pranzo, non mi interessa, ciao!'. Questa era una classica conversazione tra me e mia madre. Aveva il "brutto" vizio di farmi perdere minuti preziosi e concentrazione solo per chiedermi se avevo bisogno che mi comprasse qualcosa in particolare da mangiare. Come faceva a non capire quanto mi "disturbasse" facendo così? Del resto, se avessi avuto il tempo di mangiare un panino sarebbe stato anche troppo.
 
Nei giorni successivi cominciai ad avere dei dolori al seno. Me ne resi conto una notte, durante la quale mi svegliai di soprassalto alle 4 del mattino circa, a causa di una fitta al petto dovuta probabilmente al mio essermi girata sulla pancia. Dopo alcuni giorni di questa tortura, che mi rendeva difficoltoso sia il sonno che la corsa, chiamai il medico, il quale mi disse di aspettare per vedere se mi passava da solo dopo il ciclo, sennò ne avremmo riparlato. Mi sentii "autorizzata" a non dar molto peso alla questione, almeno per il momento e quindi a non preoccuparmi più di tanto.
 
Ricordo una sera in particolare, era un sabato. Il mio compagno era arrivato con un bellissimo mazzo di rose, dovevamo festeggiare. Io avevo appena terminato una lunga e sfiancante giornata di lavoro, ero stanca, nervosa, sarei volentieri rimasta a casa, ma non ci vedevamo spesso e la "scusa" delle troppe cose che avevo avuto da fare durante il giorno sarebbe apparsa banale. In fondo, era la giustificazione di ogni volta. Quella sera, comunque, stetti di nuovo male.
 
Il lunedì prima della presunta data entro la quale mi sarebbe dovuto arrivare il ciclo mestruale, iniziò così:
Mamma – 'Buongiorno cucciola, oggi ho fatto un sogno assurdo'
Io – (Uff, ma non lo capisce che sto lavorando? Ora deve farmi perdere tempo con le sue solite sciocchezze) 'Ciao ma', dai dimmi, in fretta però che devo fare cosa'.
Mamma – 'Ho sognato che ero con un gruppo di persone, ma ne ricordo bene solo una, era una ragazza con in braccio una neonata, piccolissima. Poi, ad un certo punto, la ragazza si è affacciata all'unica finestra che era presente nella stanza in cui ci trovavamo e la bambina è caduta giù. La cosa più strana è che nessuno si è sporto o almeno preoccupato in qualche modo di che fine avesse fatto la piccola'.
 
Non so di preciso perchè quel sogno di mia madre mi colpì così tanto, forse perchè sognava di rado, o forse a causa di quello che per settimane negai a me stessa, ma che nel profondo già sapevo. Fatto stà che quel giorno non riuscii a pensare ad altro.
Passai le giornate successive ad aspettare che il ciclo arrivasse, ma così non fu. Prenotai le visite per capire cosa avessi che non andava e aspettai che arrivasse quel momento concentrandomi sempre più sul lavoro e andando a correre anche più del solito, per non pensare.
 
Ricorderò sempre l'espressione della dottoressa durante l'ecografia, in quel momento fui certa di quello che, in realtà, sapevo da un pò, ma cercavo di nascondere anche a me stessa. Quando, a fine visita, ci sedemmo e mi disse che avevo perso un bambino, un aborto spontaneo a 3 settimane circa di gravidanza, mi ricordai il sogno che aveva fatto mia madre e riuscii a pensare solo ad un nome: Ginevra. L'avrei chiamata così, perchè sarebbe stata una bambina, ne ero certa.
 
La dottoressa mi disse che fisicamente non avevo alcun problema, nessuna malformazione ne niente, ero perfetta. Mi disse che son cose che capitano, magari il troppo stress, il poco sonno, sforzi fisici eccessivi … Insomma, la mia vita. 
Una vita che non lasciava spazio a parole gentili nei confronti di mia madre. Una vita che lasciava molto poco spazio all'amore. Una vita che spesso mi aveva portata a non esserci quando un'amica aveva bisogno di parlare. 
Una vita che non aveva permesso a Ginevra di esistere.
Ogni tanto guardo ancora le immagini di quell'ecografia, ogni tanto guardo ancora la mia Ginevra. Perchè? Per ricordarmi che non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere. Per ricordarmi che le persone a noi care meritano attenzioni e affetto. Per ricordarmi che la vita è sacra, che ogni minuto è prezioso e che l'amore e il sorriso di un nostro amico, di un genitore, di nostro figlio sono le uniche cose veramente importanti."