dall-industria-alla-riconversione-non-esistono-ricette-miracolistiche-per-il-sulcis

Da un po’ di tempo a questa parte mi capita spesso di assistere a discussioni sul futuro del territorio dal quale scrivo, il Sulcis Iglesiente. Davvero considerevole anche l'attenzione che i mass media danno al problema del polo industriale in crisi, della compromissione ambientale del territorio e di un'eventuale riconversione del sistema produttivo. Su questi ultimi due punti ultimamente sembra che ci sia un'attenzione mediatica quasi maniacale. E senza negare che i problemi legati all'ambiente siano reali, seppur ereditati da un passato in cui non esistevano legislazioni e controlli adeguati in tema di prevenzione ambientale, bisogna anche avere l'onestà intellettuale di dire che nessuno o quasi si era mai lamentato finché il polo industriale di Portovesme garantiva occupazione e ricchezza al territorio. Questa situazione andava bene a tutti.

Oggi la difficile prospettiva dell'industria o più ampiamente della ripartenza economica del Sulcis, si può sintetizzare con una serie di brevi domande: è possibile salvare il polo industriale e in particolar modo quelle produzioni strategiche legate all'alluminio o sarebbe meglio impegnarsi per bonificare e contestualmente riconvertire il territorio su altre produzioni e modelli di sviluppo? Bisognerebbe lavorare in entrambi i sensi? Quale di queste ipotesi ha concrete possibilità di realizzarsi?

Intere schiere di giornalisti, di pseudo-esperti, di sindacalisti e ambientalisti professionisti sistematicamente offrono soluzioni e prospettive. Ognuno professa con convinzione di avere la ricetta giusta. Tra tutti, gli unici che tacciono, se non per le solite dichiarazioni di facciata, sono proprio quelli che invece dovrebbero parlare e dare risposte serie accompagnate dai fatti. Coloro che dovrebbero avere un'idea generale sul futuro del territorio. Mi riferisco ai rappresentanti politici regionali e nazionali che, mai come in questi tempi, dimostrano la loro inadeguatezza rispetto alla complessità dei problemi di un territorio che è in ginocchio in ogni suo ambito. Forse tacciono anche perché comprendono di essere in gran parte responsabili di questa difficile situazione.

Mettendo da parte errori e responsabilità pregresse, oggi la vera sfida è quella di capire cosa sia veramente fattibile e finanziabile dal punto di vista politico e soprattutto quale sia il modello di sviluppo sostenibile dal punto di vista economico. Continuare a parlare di salvataggio del settore industriale senza ragionare sulle indispensabili infrastrutture economiche, energetiche, portuali, sulla continuità territoriale, sull'aspetto burocratico e fiscale e soprattutto sull'innovazione tecnologica è inutile. Serve solo a contenere e rinviare i problemi. Si potrebbe anche salvare una parte del polo industriale ma per quanto? A che prezzo e con quale rapporto benefici-danni per la popolazione del territorio? Con queste carenze come si può sperare di competere in un mercato globale sempre più sbilanciato a favore dei paesi emergenti privi di vincoli ambientali, con costi del lavoro ed energetici risibili? Premettendo che l'industria, che non è esclusivamente quella primaria, rappresenta un valore aggiunto importantissimo se non fondamentale per ogni economia progredita, è indispensabile eliminare questi gap prima di ogni altra analisi o iniziativa. Ed è abbastanza evidente che per risolvere queste problematiche deve anche cambiare l'approccio che non può più essere quello singolo per vertenza ogni qualvolta il problema si presenta, ma deve essere globale per affrontare i problemi complessivamente alla radice e in modo risolutivo.

D'altro canto, se invece si vuole ragionare su possibili alternative che passano dalle bonifiche e dalla riconversione industriale, bisogna innanzitutto pensare a come e in cosa convertire. Abbiamo già visto nel passato dei grossolani tentativi di riconversione e bonifica che poi non sono andati a buon fine. Molte volte si fa l'esempio della fabbrica ex Sardamag che da circa 20 anni è in fase di bonifica, ma è il minimo se pensiamo invece alla situazione molto più eclatante delle migliaia di siti minerari dismessi ancora da bonificare e mettere in sicurezza dopo decenni dalla chiusura. Eppure sono siti di interesse culturale, storico e quindi turistico. Se ci fosse veramente la volontà politica, si potrebbero valorizzare per creare un indotto economico e occupazionale di assoluto rilievo. Ma il problema è sempre lo stesso: la volontà politica mancante, la burocrazia asfissiante, i finanziamenti insufficienti e la risoluzione dei gap strutturali e infrastrutturali. Se si vuole riconvertire ai fini turistici si deve risolvere strutturalmente il problema della continuità territoriale, si devono costruire strade, si deve attuare una fiscalità di vantaggio e una semplificazione burocratica in grado di attrarre investimenti esterni da affiancare a quelli pubblici nella costruzione delle strutture ricettive e dei servizi.

Questi ragionamenti valgono per qualsiasi altro ambito dove si vuole investire e convertire, dalla valorizzazione dell'agroalimentare e dell'artigianato al potenziamento del settore dei servizi a un diverso modello di sviluppo. Senza risolvere i problemi strutturali e infrastrutturali non esiste futuro industriale o ricette alternative miracolose con migliaia di posti di lavoro e chi dice il contrario o ignora la realtà o mente sapendo di mentire.