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Marco Bentivogli, classe 1970, nato a Conegliano Veneto, sposato, dal 2008 segretario nazionale Fim-Cisl (Cisl Metalmeccanici). È lui uno dei protagonisti nelle maggiori vertenze italiane dall’Ilva di Taranto all’Alcoa nel Sulcis.

Bentivogli, la Sardegna negli ultimi anni si è progressivamente deindustrializzata. Da Porto Torres passando per Ottana fino a Portovesme tanti stabilimenti hanno chiuso con conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. Perché è accaduto questo?

In Sardegna le caratteristiche insulari hanno accentuato gli effetti della cultura a-industriale che si è radicata in tutta la politica italiana. La caratura dei politici sardi e italiani è, salvo rare eccezioni, sprovvista di una necessità, che dovrebbe essere la pre-condizione per occuparsi di politica: anticipare il cambiamento, governare gli assets fondamentali che generano sviluppo e tenere a bada le degenerazioni che impoveriscono persone e territori. In Sardegna le infrastrutture per la mobilità (strade, portualità, etc.), o per l’energia (vedi l’allaccio ai metanodotti), vanno a rilento. Tutto ciò ha fatto scappare o chiudere imprese. La cosa più patetica è vedere il vittimismo dei politici sardi, primi responsabili del vuoto strategico politico-industriale, che con furbizia utilizzano un sardismo elettorale e mi ricordano quando fu Commissariato Lombardo allora a capo di una regione devastata da affari e malaffare accampando ad un “attacco dello Stato all’Autonomia Siciliana”. Ci si è distratti dall’industria, dall’artigianato, dal turismo, dall’agricoltura e dalla pastorizia, per le clientele nella pubblica amministrazione e per fare affari sulle energie rinnovabili.

 

È ancora possibile un futuro per l'industria in Sardegna?

Si, ma occorre fare delle scelte, ricomporre le filiere, determinare vantaggi competitivi dal rispetto della natura e da un rapporto di conciliazione forte tra sviluppo e ambiente. In Italia vi è l’equazione tra il settore primario industriale, un tempo fortissimo in Sardegna, e l’inquinamento. Non è così in gran parte del mondo, dove proprio dal primario (chimica, produzione metalli, etc.) sono nate esperienze di eco-sostenibilità. Anche qui serve una politica che non pianta cartelli o cavalca le tigri, ma costruisca soluzioni.

 

Quanto è importante il settore industriale in ogni economia progredita?

Il nostro paese è “condannato” ad avere un industria forte che esporta perché piccolo e povero di materie prime. Le esportazioni generano i denari per pagare le importazioni di ciò di cui naturalmente siamo sprovvisti. Solo una politica che vede il mondo dai talk-show o i reality può far finta di non capirlo.

 

Questo governo non sembra avere una chiara politica industriale a differenza di quanto accade in altri Paesi europei. È ipotizzabile oggi un intervento pubblico per salvare il settore industriale?

Tutti gli ultimi governi ritengono sia un tabù un intervento forte di coordinamento e sostegno dei settori importanti della nostra industria. Siamo passati dai finanziamenti a pioggia alle imprese all’imbarazzo solo a parlare di industria. Sono contrario a tornare alle imprese di Stato, sono un’illusione che qualche Sindacato usa perché è a corto di idee e di coraggio. Il Governo deve risolvere i nodi critici che rendono i nostri territori ormai “repellenti” per le attività industriali (energia, trasporti, pubblica amministrazione, burocrazia, management industriali capaci, banche vecchie e ingorde).

 

Che ruolo gioca il sindacato in mezzo a questa crisi e quali sono le sfide future nell'era della globalizzazione?

Il sindacato sta gradualmente cercando di superare il ruolo di 118 delle crisi, per trovare soluzioni strutturali e non tampone. Per questo abbiamo chiesto, e ottenuto il tavolo nazionale su siderurgia e alluminio, lo stiamo chiedendo sul settore ferroviario, sull’Ict e sulla cantieristica e ultimamente sull’elettrodomestico. Sicuramente dobbiamo fare di più e meglio, ma la disperazione aumenta e chiediamo che ognuno(sindacato, politica, istituzioni, imprese) faccia la propria parte senza scappare dalle propria responsabilità.

 

Lei ha avuto sempre un occhio di riguardo nei confronti delle vertenze sarde. Come mai questo attaccamento a un'Isola e a un territorio, il Sulcis, che tanto soffre questo particolare periodo di crisi?

In Sardegna, nel Sulcis, la provincia più povera d’Italia, ho trovato tanta disperazione e rabbia. Ma ho visto sempre questi sentimenti non riuscire a raggiungere la rassegnazione. Ho sentito ragazzi delle scuole dire frasi di un tempo “se vincono i metalmeccanici, vinciamo tutti”, ho visto combattività intelligente, per cui si lotta per fare accordi e capacità di dialogo e unità tra chi ha vent’anni e chi supera i cinquanta. I ragazzi mi dicono “Marco, sei uno di noi”. In Fim questa vicinanza oltre a riempirci di orgoglio è la testimonianza di riuscire ancora a far capire che il nostro coraggio nelle vertenze deriva dalla volontà di condividere il destino delle persone che rappresentiamo e non da calcoli ideologici elettoralistici come fanno altri. Ti confesso che quando in corteo i ragazzi cantano la versione sulcitana dell’inno della Brigata Sassari mi vengono i brividi. Mi sono affezionato all’Italia più in difficoltà e che non rinuncia alla sua dignità e libertà. Questa deve essere la risposta alle crisi.

 

Lo stabilimento ex Alcoa riaprirà?

Faremo l’impossibile perché ciò avvenga, anche la scorsa settimana ci sono stati incontri, contatti, Klesch ha chiarito le sue disponibilità formalizzandole al Mise, ora Alcoa deve scoprire le carte. A settembre tutto sarà chiaro. Nel frattempo il “piano Sulcis” deve diventare concreto, deve diventare un’occasione ulteriore di sviluppo, che sappia cogliere le tante idee e iniziative, anche dei ragazzi del Sulcis come delle grandi aziende, per un futuro migliore per il Sulcis e la Sardegna.