L’assistente sessuale per i disabili? Non è amore, e non è la soluzione: al massimo si può parlare di amorevolezza. È il pensiero di Fabio Veglia, ordinario di Psicologia clinica all’Università di Torino, uno dei massimi esperti internazionali di sessualità e disabilità, sulle nuove metodologie già adottate fuori dall’Italia, in particolar modo in Svizzera, per rispondere alle richieste di amore, anche fisico. Le riflessioni sono state raccolte a margine di una serie di lezioni a Cagliari rivolte a medici e psicologi.

“Un’ipotesi molto più politica che sostanziale – ha detto – nel senso che quella dell’assistente sessuale sembra una risposta di libertà. In realtà non soddisfa il bisogno di vicinanza, di affetto e di amore che normalmente le persone con disabilità chiedono: poter fare sesso con una persona che si presta non significa entrare in una relazione o avere un’espressione di amore. Al massimo è un gesto fatto con amorevolezza”. Non è solo un suo parere.

“In Svizzera – ha continuato Veglia – per esempio è tutto ben organizzato, ma la maggior parte degli operatori si rende conto che non è questa la risposta di cui hanno bisogno i ragazzi disabili. Il percorso è molto più impegnativo, molto più difficile da sostenere per gli operatori”. Prima la vita sessuale dei disabili era tabù. Ora lo è un po’ meno.

“Per secoli è stata negata la vita sessuale alle persone con disabilità sostenendo che la loro sessualità fosse diversa e non avrebbe potuto realizzarsi in modo fisiologico. Nessuna ricerca scientifica ha dimostrato tutto ciò. Trentacinque anni fa si è posta la questione in modo più diretto: io ero tra coloro che provavano a costruire progetti. Le richieste di aiuto erano però rivolte a interventi di tipo costrittivo: come limitare il comportamento sessuale delle persone con disabilità. Sostanzialmente erano interventi di tipo repressivo. Da lì però è iniziata una riflessione. L’Italia è stata sempre stata in prima fila, forse addirittura in una posizione innovativa rispetto al resto del mondo”.