L’esibizione indimenticabile di Janis Joplin ‘piece of my heart’, Joe Cocker che trascina i 500 mila del prato di Bethel, Joan Baez incinta, Jimi Hendrix che con la sua Fender Stroatcaster suona l’inno americano in versione rock… le immagini del concerto di Woodstock, i tre giorni di pace e musica che hanno segnato una generazione e non solo tornano alla mente in questi giorni che si ricorda l’evento di metà agosto del 1969. 50 anni e sentirli tutti: fu l’apice, musica a parte, di un nuovo tipo di comportamento sociale, alternativo: sesso libero, convivenza interrazziale, utilizzo di stupefacenti e disprezzo delle convenzioni, prima fra tutti quella della chiamata alle armi per il Vietnam. Cosa resta oggi di quell’esperienza anarchica? Complicato dirlo, forse davvero poco pur aver segnato migliaia di giovani nel mondo.  L’eredità di Woodstock è però anche altro, se vogliamo analizzarla da un punto di vista inedito, certo non primario: la moda. Le giovani generazioni amano lo stile Coachella, citano quel festival in due weekend primaverili in California, pieni di celebrities, come un modello di stile. E i principali brand, di conseguenza, si rifanno al Coachella ogni anno per lanciare collezioni – omaggio. E quando si tratta di andare ad un concerto, ad un evento musicale, ad un festival al Coachella si fa riferimento. Ma la ‘moda da festival’ ha un’origine: Woodstock 15-18 agosto 1969.

È difficile da ricordare, sottolinea la critica di moda del New York Times Vanessa Friedman, ora che ogni e-tailer dal lussuoso Net-a-Porter all’ASOS accessibile ha una sezione sul suo sito web dedicata alla “moda da festival;” ora che marchi come Saint Laurent, Calvin Klein e Amazon ospitano speciali capsule Coachella, ora che influencer si fotografano con un look festivaliero, shorts strappati, top corto, capelli lunghi. Ma quando tutto è iniziato, “festival” e “moda” erano in realtà concetti opposti. A Woodstock come all’isola di Wight si andava vestiti in modo libero, individuale, ribelle, il contrario della moda in voga. C’è il rifiuto delle regole, anche quello della moda, all’origine della tre giorni di Woodstock.

La moda di Woodstock non era affatto moda. Come ci mostrano le foto vintage del 1969 ci si vestiva come si voleva: abiti lunghi a fiori, jeans a vita alta e a zampa larga, oppure corti, strappati e scamiciate, magliette sotto il seno: l’oversize e il micro allo stesso tempo, ogni tipo di scarpe e di acconciature si vedono nelle foto dei ragazzi e ragazze su  quelle collinette erbose. Era uno stile anti tutto, compreso quello di liberare il seno. Era portatore di un messaggio politico e sociale, anti commerciale, anti capitalistico. Erano gli abiti fatti a mano, la maglia ad uncinetto, il macramè, il patchwork. Cambiati gli anni, le regole sociali, ai festival ci si veste ancora così, senza sapere cosa c’è dietro un tipo di abbigliamento.

Le maglie sfumate viste al Coachella e quest’estate di grande moda hanno fatto il suo esordio pubblico nel 1969 su quei prati: si prendeva una vecchia maglietta, si attocigliava, si bloccava con elastici così a torchon e si immerveva nella tintura. Voilà ecco il tye-dye, il degradè, lo sfumato. Ogni maglietta diversa, ognuna personalizzata, ognuna fatta in casa. Siamo lontani anni luce dalla globalizzazione tessile dalle parti della Yasgur’s Farm (la fattoria che ospitò la mitica tre giorni) tra il 15 e il 18 agosto 1969. Ora quell’individualità è prodotta in serie l’hippy si chiama boho chic o Coachella.