Il tribunale fallimentare di Milano ha rigettato l’istanza di fallimento del gruppo Moby Tirrenia presentata da un gruppo di hedge fund bondholder della società ritenendo che attualmente non vi sia alcuno stato di insolvenza, ma sottolineando la possibilità in futuro – tra circa un anno – di una crisi concreta.

Il provvedimento, che è stato depositato nelle scorse ore, sottolinea la “necessità di monitoraggio e di ricorrere a strumenti di superamento di una crisi che in prospettiva ha caratteristiche importanti e che potrebbero divenire molto gravi”.

Il collegio, si legge nell’atto, ritiene che i Fondi “in definitiva, impossibilitati ad attivare lo strumento del 2409 c.c. perché non sono soci” e “all’utilizzo ed introduzione dell’azione di responsabilità dei creditori, perché il patrimonio sociale non è venuto meno, con il presente ricorso invece che il fallimento o meglio l’amministrazione straordinaria, che come obbligazionisti sarebbe certamente un vantaggio incomprensibile, vogliano proprio incentivare l’apertura di una procedura minore”, cosa che “ovviamente indurrebbe la fiducia degli investitori e li rassicurerebbe sulla sorte dell’attività”. “Come è noto però – continua – ancora nella configurazione attuale, come in quella futura, il legislatore non ha avuto la volontà, pur avendolo valutato e discusso, di creare procedure ‘minori’ obbligatorie per il debitore, essendo tutte di iniziativa dello stesso, se si esclude proprio la misura di allerta precitata”.

Il Tribunale osserva poi che la difesa di Moby “con dovizia di particolari ha descritto i propri assetti organizzativi eccellenti, indicando organigrammi e funzioni, aree di interesse ecc.. al fine di dimostrare la rispondenza della propria organizzazione alla riforma. Il collegio osserva però – si legge sempre nell’atto – che l’entrata in vigore degli artt. 375,377,378 l.f. (legge fallimentare, ndr) e del relativo art. 2086 e 2257 c.c. (codice civile, ndr) impone anche di attivarsi senza indugio per l’adozione o l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale e che la dizione dell’articolo appare coerente colla situazione esistente nella Moby e nel suo gruppo”.

“Ciò induce a credere – prosegue il decreto – che il collegio sindacale sarà sensibile alle responsabilità cui andrebbe incontro se non supportasse il dovuto comportamento degli amministratori o non lo sollecitasse, come lo saranno gli amministratori, soprattutto ora che le condotte denunciate, di evidente conflitto di interessi in cui opera l’amministratore, di operazioni con società correlate, prive di serie garanzie di restituzione dei finanziamenti, sono state portate alla luce”. Per il collegio “allo stato la declaratoria” di fallimento “non sarebbe pronunciabile”, e riguardo alle spese ed alla responsabilità per lite temeraria, ha osservato che “la materia esaminata è del tutto nuova, la situazione di crisi è altresì evidente, il sussumerla nella fattispecie della insolvenza prospettica non era ragionamento privo di qualunque logica, né dimostra quella colpa che di regola giustifica la condanna per lite temeraria”. Non così per le spese processuali che i fondi dovranno versare: 6000 euro al netto dell’Iva e altre voci.

E’ una sorta di “allerta” quello lanciato a Moby dal Tribunale fallimentare di Milano nel provvedimento con cui ha rigettato in pieno la richiesta di fallimento di un gruppo di hedge fund bondholder della società. I giudici ritengono, come si legge nel decreto, che “allo stato non vi sono manifestazioni esteriori e nell’immediato futuro vi sono molteplici elementi imprenditoriali incerti, per poter ritenere sicuramente la società prospetticamente insolvente a breve”, ma evidenziano anche la “necessità di un monitoraggio” e “di ricorrere a strumenti di superamento” di una possibili crisi futura in quanto “i margini operativi nascenti dal core business della società tendono a ridursi costantemente”.

Infatti si legge nel decreto: “Come ha con chiarezza cristallina osservato la Procura (…) la società convenuta, che fa parte di un gruppo con circa 5.800 dipendenti e ne ha di propri superiori alle mille unità, non ha alcuna esposizione tributaria o previdenziale avendo alcuni anni fa vinto un contenzioso tributario di rilievo ed ottenuto lo sgravio totale, e non risulta incapace allo stato di fare fronte alle obbligazioni scadute essendo recentemente rientrata nei confronti delle banche, facendo fronte alla rata annuale del prestito contratto nel 2016”.