Aperto nel 2014, il carcere di Uta aveva da subito mostrato le sue fragilità: infiltrazioni d’acqua, distacco di intonaci, porte che non si chiudevano, ma soprattutto la mancata realizzazione dell’ala per i detenuti in regime di alta sicurezza, il cosiddetto 42 bis, prevista dal capitolato.

Disfunzioni segnalate a stretto giro, con una serie di esposti, al Dap della Sardegna, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ad occuparsi della costruzione del nuovo carcere era stata la società Opere Pubbliche, fallita nel 2015. Dopo l’arrivo degli esposti, gli investigatori e i consulenti incaricati dalla Procura di Cagliari effettuarono quattro sopralluoghi tra il dicembre 2015 e il marzo 2016, segnalando al Pm Secci le anomalie, poi finite al centro dell’inchiesta per un sospetto peculato di 20 milioni di euro che si è chiusa in questi giorni con 12 indagati.

Lavori mai eseguiti, non conformi o pagati due volte, che secondo l’accusa hanno gonfiato a dismisura i costi di costruzione. Sotto la lente della Procura è così finito l’intero capitolato d’appalto, con gli esperti del Pm che hanno cercato di capire se i lavori eseguiti ‘a corpo’ e poi liquidati fossero stati fatti a regola d’arte, con le giuste quantità di ferro, calcestruzzo e con i materiali espressamente indicati, considerati i tanti problemi strutturali emersi subito dopo l’inaugurazione del carcere.