Una cittadina sassarese, docente di una scuola media, ha scritto alla redazione di Cagliaripad.

Secondo la professoressa di Sassari la situazione negli ospedali sardi, e quindi non solo in quello della sua città, “è già in qualche modo scritta”. Le motivazioni, come si può leggere nel continuo dello scritto, sono relative alla carenza di dispositivi sanitari utili alla protezione di medici e infermieri.

Di seguito il testo integrale della lettera:

Da quando è scoppiata l’epidemia di Covid 19 nel Nord Italia, la nostra Isola si è divisa in due fasce: da una parte i terrorizzati che avevano seguito la vicenda cinese e che avevano intuito che la malattia indotta dall’infezione potesse essere peggiore di quanto percepito; dall’altra gli ottimisti, divisi a loro volta in coloro che credevano che fosse appena più di un’influenza e in coloro che ritenevano che qui, in Sardegna, il morbo non sarebbe arrivato, perché il Tirreno sarebbe bastato a salvarci la vita.

Avevano ragione i primi, ma non tanto per la temuta gravità della Sars Covid-19 in sé, quanto per il timore di non poterla diagnosticare e curare fattivamente. Catastrofismo? No, solo il timore di vedersi realizzare una storia già scritta, aumentato di ora in ora nel constatare che alla prima emergenza conclamata i sanitari, i medici, gli infermieri e gli Oss, cadevano come birilli, lavorando a mani nude e senza quel minimo indispensabile per non infettarsi e infettare a loro volta. Da quell’istante sono riapparse, nella mente di chi scrive, le scene vissute tempo addietro negli ospedali sassaresi, quando a causa di un padre oncologico (ora deceduto) e di una madre affetta da ictus (ora invalida) era costretta, suo malgrado, a frequentarli spesso. Interi reparti sguarniti del minimo sindacale per poter operare in sicurezza e in modo funzionale. Assenza di bicchieri, medicinali specifici, garze e panni addirittura da dover acquistare coi propri soldi, perché “sa, qui i fondi sono quelli che sono e l’ospedale non può garantire i panni a tutti. I pazienti sono troppi”. Troppi rispetto a cosa, troppi rispetto a chi? A uno stato che dal 2001 ha ridotto sempre più e in maniera progressiva i fondi da destinare alla sanità e all’istruzione? Alle Regioni che dal 2001 sono i gestori della sanità pubblica e che passano di amministrazione in amministrazione, senza riuscire a tamponare uno strappo ormai ventennale? Com’era possibile, a Sassari, in una simile situazione non andare in affanno ai primi contagiati?

Infatti non è stato possibile. Interi reparti ospedalieri in fibrillazione cardiaca alla prima vera emergenza e sanitari KO, quegli uomini in prima linea che da anni acquistano di tasca propria bicchieri, acqua e carta igienica, perché se vogliono andare al bagno devono pulirsi, se hanno sete devono bere e se hanno un paziente assetato, in barella da ore, hanno a cuore di aiutarlo. Trattamenti salvavita, come la dialisi, che sono diventati vettori di contagio indiscriminato e che hanno costretto i pazienti ad essere veicolati nelle loro case. Le piaghe, le ferite, che per un dializzato diventano come la lebbra se non curate, stanno conducendo i poveri malcapitati a una quarantena forse senza futuro, simile a quella subita dai vigili del fuoco di Chernobyl che, buttati in prima linea, oltre a morire hanno dovuto patire le pene dell’inferno, sciogliendosi come neve al sole a causa delle radiazioni. L’ADI (assistenza domiciliare infermieristica) latita perché mancano i dispositivi di sicurezza, sebbene qualcuno ha sostenuto che i magazzini siano pieni; la spazzatura, per chi ha un paziente positivo a casa, non può essere conferita né nei raccoglitori, né essere lasciata fuori per il porta a porta, perché quando hai nel corpo una peste acclarata o presunta non puoi aprire nemmeno il portone di casa.

Le residenze per anziani, in cui molti di noi hanno dovuto incanalare i propri cari, si stanno infettando giorno dopo giorno, perché essersi recati all’ospedale per una visita specialistica o un trattamento salvavita è costato caro, molto più di un controllo in intramoenia o dal privato, e sembra non esserci un antidoto che possa fermare questa contaminazione, un Gino Strada sardo che riesca a dare speranza ai familiari che a casa dormono poco e male, terrorizzati dalla fine che i propri cari potrebbero subire. E anche questo non è gratis, ma pagato in una retta mensile che si credeva, fino a ieri, aiutasse il virus a non spadroneggiare. E’ vero che prima o poi tutti dobbiamo morire, ma sofferenti, sporchi, addirittura senza un minimo di servizio funebre come i decreti attuali impongono, è troppo per chiunque.

Troppo per chi in questo stato ha sempre creduto, lo ha servito e lo serve da dipendente pubblico, troppo per chi ha sofferto, ha già perso qualcuno e ha dovuto arrendersi alla malattia e affidare un genitore a una RSA, nella speranza di lasciarlo andare, un giorno, con dignità. L’unica speranza, sebbene difficile da intravvedere in questa quarantena forzata che non è uguale per tutti e non avrà le stesse conseguenze per tutti, è che le amministrazioni capiscano definitivamente che investire soldi nella sanità e nell’istruzione non è mai uno spreco, ma un bene pubblico (anche per loro) che un giorno tornerà utile e ci farà sentire più degni di essere nati”.