Tensione, fatica, paura di ammalarsi, grande senso di impotenza dinanzi a tanti malati tutti nelle stesse condizioni e che, in molti casi, ci si è dovuti rassegnare a poter solo accompagnare verso la fine, cercando di non farli soffrire. Sono alcune delle sensazioni che Marco Resta, intensivista rianimatore del Policlinico San Donato (Milano), ha raccolto nel diario che ha iniziato a scrivere dal primo giorno in cui si è trovato a dover affrontare questa epidemia.

“All’inizio ho scritto per raccontare la tensione, il carico enorme di lavoro, le emozioni, la fatica di un evento imprevedibile. Adesso inizia a sentirsi la stanchezza per un’emergenza che è diventata routine. Ogni pagina scritta, su un file di Word, l’ho mandata quotidianamente ad amici e colleghi, e devo dire che molte persone dall’esterno mi hanno detto di aver capito cosa stavamo vivendo. Qualche altro collega ha fatto altrettanto, mandandomi il suo diario”, racconta resta all’ANSA.

Un’esperienza quella col Covid-19 iniziata circa un mese fa, quando è stato mandato a dare supporto ai colleghi dell’ospedale di Lodi. “Prima di arrivarci, pensavo che i racconti fossero esagerati – continua – invece una volta entrato ho trovato un ospedale con alcuni reparti vuoti e altri blindati. La rianimazione piena di malati tutti uguali, con continue chiamate dal Pronto soccorso. Avevo una gran paura di ammalarmi e mi sentivo impotente dinanzi a malati che non guarivano”. Il giorno seguente, al Pronto soccorso, è stato anche peggio. “Un vero inferno, con anche gente per terra, tutti in insufficienza respiratoria.

Sembrava di stare in un teatro di guerra”, ricorda. Dopo quei due giorni è stato richiamato al suo Policlinico per predisporre una terapia intensiva dedicata ai malati Covid. “L’esperienza a Lodi mi è stata utilissima per organizzarci, perché è valsa come un mese di lavoro”, prosegue Resta. Una delle cose più difficili da affrontare, per lui come per gli altri suoi colleghi, è stato dover valutare quale dei malati far accedere alla terapia intensiva, e poi i “colloqui con i pazienti e i loro familiari”.

“Ho lasciato il mio cellulare nel reparto disponibile per i malati, in modo che potessero videochiamare i propri parenti. È stata dura invece dover gestire tutte le comunicazioni con le famiglie solo per telefono, senza poterli guardare in faccia”. Necessario aiutare anche i colleghi più giovani, che in alcuni casi hanno fatto fatica a reggere emotivamente. Cosa è cambiato dopo circa un mese? “È mutata la percezione di una cosa più grande di noi. Questa è una malattia subdola, difficile, che ci costringe a cambiare i protocolli almeno una volta a settimana”, riconosce. Soprattutto “non si può pensare di usare come unico baluardo per arginarla la terapia intensiva. È una battaglia che va combattuta anche nei reparti e intercettata a domicilio. La terapia intensiva funziona solo se si prende il paziente nel momento giusto”.

E infine una richiesta: “Non chiamateci eroi. Tra di noi c’è paura, impotenza, impreparazione, ci siamo tutti dovuti mettere a studiare di nuovo perché ancora non sappiamo un sacco di cose su questa malattia e come gestirla. Ma una cosa è sicura, non abbandoniamo nessuno”.