Scomparso Maurizio Calvesi a novantadue anni, forse l’ultimo degli storici e dei critici Italiani viventi, un intellettuale d’azione che non è mai stato un curatore nel senso espositivo e contemporaneo del termine, in un sistema dell’arte sempre più barbaro, legato al marketing delle apparenze di competenze farlocche e dell’individualismo specializzato fondato sulla negazione della comprensione dell’altro è stato un valore aggiunto.

Con lui ci saluta un approccio alla storia dei linguaggi dell’arte novecentesco, il mio approccio alla storia dell’arte per il quale non posso che ringraziarlo. Ci saluta una modalità di leggere l’arte in tutta la sua complessità linguistica, qualcosa di molto distante dagli stati facebook e instagram, perché invitava alla comprensione delle immagini più che all’imposizione delle sue apparenze. Un vero militante dell’arte, non un fake a dimensione consumistica.

Mi lascia in un momento dove il web è diviso dalla visita di Chiara Ferragni agli Uffizi, che pare essere un valore culturale assoluto di lettura della comunicazione del tempo presente fondato sulla istantaneità delle dinamiche di comunicazione dell’arte e della cultura, tutto questo è distante anni luce da lui (come da me).

Maurizio Calvesi era uno che l’arte la viveva in prima persona, la sua biblioteca era costruita dallo Scultore Mario Ceroli, i libri nel secolo scorso erano importanti e custodirne il sapere era arte. Conobbe da giovanissimo Giacomo Balla e Filippo Tommaso Marinetti, scrisse poesie futuriste, era un intellettuale d’azione che dagli anni cinquanta in poi ebbe una serie d’incarichi istituzionali.

Lui studiava la sua contemporaneità, sapeva ragionarci, la pop art Romana (Mario Schifano, Tano Festa e Franco Angeli) gli deve molto, come Alberto Burri. Lui era un militante della parola scritta e ragionata, del talento e della vocazione che sapevano tradursi in studio permanente, non era distante e inarrivabile, era avvicinabile da chi avesse doti artistiche o intellettuali, per le quali si entusiasmava e incoraggiava.

In Italia è stato fondamentale nel fare rodare processi e pensieri operativi nelle Accademie di Belle Arti, nei Musei, nelle Università, nelle Soprintendenze, in grado di dare dignità a un’idea dell’arte pubblica che sapesse essere didattica e dialettica, non un prodotto imposto. Un baluardo a difesa della storia dei linguaggi dell’arte elevati a ricerca tradotta in qualità. Mi lascia un pezzo di novecento insostituibile e incorruttibile, da comprendere, ora più che mai, visto che nel nome della specializzazione delle competenze settoriali, del marketing digitale e degli influencer, della comunicazione algoritmica fondata sulla causa effetto che nega l’arte come linguaggio, si è persa l’abitudine a leggere, comprendere, studiare e meditare con le parole dei giganti.

A Cagliari ne imporrei la lettura, per fare comprendere di riflesso, quanto sia arretrata e indifesa una comunità priva d’Alta Formazione Artistica.

 

Mimmo Di Caterino