Ci ha lasciato Philippe Daverio, proprio il mese scorso ragionavo su di lui con Giancarlo Politi, ex Direttore di Flash Art, la storica testata d’arte contemporanea, da lui fondata, ancora oggi la più autorevole in Italia e in Europa. gli facevo notare come Daverio stesse diventatando datato come divulgatore di fatti dell’arte, rimpiazzato da influencer di professione o Art influencer di settore, basterebbe solo questo a comprendere quanto la sua perdita sia un duro colpo per lo stato dell’arte Italiana.

Un duro colpo proprio nel nome del suo essere un narratore dell’arte in quanto linguaggio, che in quanto tale sapeva tradurre tutta l’arte in contemporanea.
Con la storia dell’arte tagliata in tutti i Licei e scuole superiori (eccezion fatta per i Licei Artistici), in una nazione che può vantare l’unica città metropolitana sul fronte occidentale ancora priva di un’Accademia di Belle Arti, essere un divulgatore volto noto, massmediatico e nazional popolare di arte e cultura lo rendeva patrimonio collettivo.
Certo, la sua era una narrazione e una rappresentazione dell’arte per contenuti, trasversale, complicata che non sa leggere l’arte in tutta la sua dimensione olistica, ultimamente certe sue pillole passavano anche per “Striscia la notizia”, ma la sua autorevolezza era oramai messa in discussione dai media integrati, in un mondo dove oramai non conta la cultura e il sapere che hai, ma quanto fai parlare e quanta gente porti nei Musei.

Certe intelligenze e certi modi di pensare l’arte rischiamo di perderle in questo millennio, casi come quello della Ferragni agli Uffizi hanno dimostrato (con tanto d’incrementi di visitatori giovani certificati), che si può portare al Museo gente, armati non di cultura e arte, ma semplicemente del proprio account instagram e di Tic Tok.
In quel dialogo Politi mi faceva notare, come, nella sua lista di amici, fossi l’unico a leggere i libri di Daverio, ne capisco il motivo, troppo proiettato nella storia e troppa storia applicata all’arte contemporanea, questo appesantisce la fruibilità e l’istantaneità della contamporaneità, ma su una cosa (talvolta capita) ci siamo trovati d’accordo, che i suoi fan (in materia d’arte) siano tantissimi in Italia, anche solo il ridurlo a intrattenitore (cosa non era) portava a riconoscerne la statura e struttura intellettuale, nell’arte, come in tutti i linguaggi (che dall’arte nascono), non è importante quello che si dice, ma come lo si dice, Daverio sapeva parlare d’arte.

Ma non scompare solo un divulgatore televisivo (“Il Capitale di Philippe Daverio” e il notissimo “Passepartout” che aveva portato l’arte nelle case degli italiani, intensa la sua partecipazione a “Striscia la notizia”), è stato docente di storia dell’arte, presso la IULM di Milano, come esperto di storia del design è stato per diversi anni docente al Politecnico di Milano, fino al 2016 professore ordinario di disegno industriale presso l’Università degli Studi di Palermo.

Daverio è stato anche curatore e gallerista, se vogliamo come performer lo possiamo anche considerare un artista, insomma uno che i linguaggi dell’arte ha saputo intermediarli, senza rinunciare nel veicolarli a impoverirne i contenuti.
Che stesse combattendo con un tumore, nell’isola l’aveva annunciato con Pinuccio Sciola a Cagliari, in occasione della presentazione delle sue scenografie per la Turandot, dove disse:

“Non smetterò mai di ringraziarlo, grazie a lui ho potuto prendere un tumore per tempo e salvarmi, era dello stesso tipo che hanno diagnosticato a lui”, purtroppo quel tumore li ha portati via entrambi e da male oscuro qual’è, ci proietta tutti in un millennio, dove dell’arte e della cultura sembra interessare poco a tutti i consumatori inconsapevoli d’immagini ed estetica, con la scomparsa di Daverio indeboliamo ulteriormente i nostri anticorpi nei confronti del virus dell’ignoranza di massa diffusa e delle notizie e delle immagini strumentali e strumentalizzabili.

Di Mimmo Domenico Di Caterino