L’odissea di una paziente positiva al Covid e in isolamento domiciliare da un mese inizia qualche giorno fa, con dolori lancinanti. “Vabbè me li tengo, sono positiva”, e stringe i denti. Ma i dolori continuano, fino a diventare insopportabili. “Vado in ospedale e dichiaro di essere positiva”, ci racconta. Accolta come se fosse l’untore di turno, come se un paziente positivo non potesse ammalarsi di qualsiasi altra patologia (che per ragioni di privacy omettiamo), viene presa e schiaffata su una barella. E’ l’una di notte. In barella viene portata in una stanza con le finestre aperte. Neppure uno straccio per coprirsi, neppure un lenzuolo, solo i suoi abiti. Il freddo è insopportabile, pungente, anche se siamo a Cagliari. Ma lei continua a soffrire in silenzio.

Dopo circa un’ora e mezza arriva un medico “che in 30 secondi” le fa un’ecografia e sene va “senza dire nulla”. Poi una flebo, e non vede più nessuno. Nel frattempo batte i denti e trema, vede l’alba dalle finestre spalancate, poi cede. Intorno alle 10 del mattino, dopo 10 ore ferma su una barella, senz’acqua e senza cibo, infreddolita e stanca, la paziente si alza e apre la porta della stanza. Mai l’avesse fatto. Come in un cartone animato viene travolta da un urgano di urla: “Stai ferma, non uscire, devi preservare la salute di tutti”.

Le si palesa di fronte un giovanotto in camice bianco che prosegue nella “poco umana” declinazione di aggettivi e raccomandazioni. Lei decide di tornare a casa, in isolamento, dal mondo e dalla famiglia.
Questo è successo qualche giorno fa in un ospedale di Cagliari dove tutto sembra normale. Ma di anormale c’è tutto perché sembra proprio che un paziente positivo al Covid non abbia diritto all’assistenza sanitaria che è dovuta ad un essere umano.