Mani costrette in un paio di calzini da tennis annodati, vecchi, lerci, fissati alla cintura dei pantaloni. Per la notte una stanza senza bagno, senza arredi, per la sua tutela. È così che vivrebbe il paziente di un centro Aias del Sud Sardegna, con un casco da fighter in testa, rigido e con una griglia protettiva, come quella usata per Hannibal Lecter, il serial killer protagonista di un film cult. Ma la sua unica colpa è essere affetto da una grave patologia, il picacismo, un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato dall’ingestione continua di sostanze non nutritive.

Una comunicazione ufficiale al personale del reparto, datata 18 agosto 2010, aggiornata pochi mesi dopo, il 29 ottobre, e un’altra, del 22 novembre 2010 dello stesso anno, confermano la richiesta, da parte della direzione sanitaria, di contenere le mani tramite guantoni nelle ore diurne e in quelle notturne, e far indossare la maschera protettiva durante il giorno.

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Da oltre dieci anni il paziente ritratto in queste foto vive con le mani legate da guantoni improvvisati e con un casco omologato per altri scopi (attività sportiva) sulla testa.

Queste immagini raccontano una storia stonata, parlano di un uomo sul quale vengono utilizzati mezzi di contenzione e protezione non consoni e nemmeno dignitosi, per evitare che possa recare danni a sé stesso a causa del suo problema di picacismo e delle sue altre patologie.

Queste immagini raccontano una già sentita storia di carenza di personale che induce l’organizzazione di una struttura sanitaria a utilizzare la contenzione come misura preventiva per l’impossibilità di monitoraggio costante del paziente. La soluzione però non è ammissibile nemmeno secondo la Corte di Cassazione che nella sentenza 5049 del 2018 (quella con cui si conferma la condanna per sequestro di persona nei confronti di medici e infermieri che ebbero in cura, nell’ospedale di Vallo della Lucania il maestro elementare Franco Mastrogiovanni) precisa che l’uso della contenzione meccanica non ha una finalità curativa e non migliora le condizioni di salute del paziente.

I giudici, inoltre, nella stessa sentenza pongono l’attenzione sull’esistenza di un Regio Decreto (16 agosto 1909, regolamento sui manicomi) che imponeva di adottare la contenzione solo come extrema ratio e in casi assolutamente eccezionali.

“Ai fini dell’integrazione dell’esimente dello stato di necessità – si legge nella sentenza – occorre che il pericolo di un grave danno sia attuale ed imminente o, comunque, idoneo a far sorgere nell’autore del fatto la ragionevole opinione di trovarsi in siffatto stato, non essendo all’uopo sufficiente un pericolo eventuale, futuro, meramente probabile o temuto. Si deve trattare di un pericolo non altrimenti evitabile sulla base di fatti oggettivamente riscontrati e non accertati solo in via presuntiva. Dunque – si aggiunge – occorre, in primo luogo, che la situazione di pericolo sia attuale. Questo vuol dire che non è assolutamente ammissibile l’applicazione della contenzione in via precauzionale sulla base della astratta possibilità o anche mera probabilità di un danno grave alla persona, occorrendo che l’attualità del pregiudizio risulti in concreto dal riscontro di elementi obiettivi che il sanitario deve avere cura di indicare in modo puntuale e dettagliato”.

Il rispetto dei diritti umani e della persona dovrebbe essere la premessa necessaria a qualsiasi iniziativa di presa in carico di un paziente. Le comunità protette socio-assistenziali,  quale quella in cui risiede il paziente, dovrebbero essere vissute come spazi accoglienti, protetti e controllati. Spazi che si adattino alle esigenze della persona e le garantiscano la vita dignitosa che per varie ragioni non può ottenere in un ambiente domestico.

La contenzione è una forma di coercizione incompatibile con la finalità di cura e in contrasto con il principio costituzionale della inviolabilità della libertà personale.

In essa non è riscontrabile, in alcuna forma, la qualità di atto terapeutico e il suo ricorso diffuso ha l’unico effetto di affliggere chi vi è sottoposto, chi vi assiste e chi la mette in atto.

La replica del Centro Aias di Cortoghiana

Aggiornamento 02/12/2020

Il direttore sanitario del Centro di Cortoghiana, il dottor Valtere Merella, precisa quanto segue:

Il nostro ospite non è una persona affetta da malattia psichiatrica in senso stretto, ma da una malattia cerebrale su base genetica che ha causato un grave ritardo mentale. Non possiede un linguaggio adeguato e non è in grado di comprendere e valutare i pericoli dovuti al disturbo del comportamento alimentare reiterato e permanente, caratterizzato dalla compulsione a cibarsi di ogni cosa o oggetto non commestibile, definito con il termine di “picacismo” di cui appunto avete parlato.

Tale comportamento può avere conseguenze molto gravi, che l’hanno condotto ad un ricovero e intervento chirurgico urgenti, proprio come accaduto di recente.

Il grave ritardo e l’assenza di un linguaggio adeguato hanno sempre impedito ogni possibilità di collaborazione volta a contenere o correggere questo sintomo così pericoloso. La reiterazione continua non consente di proteggerlo dal suo comportamento adottando la vigilanza stretta a causa della velocità e imprevedibilità della compulsione a ingoiare di tutto, alla quale si accompagnano reazioni auto e eteroaggressive quando viene fermato. Il contesto di sofferenza organica (dovuta cioè ad una lesione cerebrale diffusa come nel suo caso) rappresenta un tratto sfavorevole con una tendenza alla progressione peggiorativa.

Alla luce di quanto precisato sinora, il ricorso ad una così pesante misura di restrizione trova una giustificazione come scelta di tutela dell’incolumità per una persona che presenta un sintomo assai grave e costantemente pericoloso che ha determinato più volte conseguenze che hanno messo già a repentaglio la sua vita”.