“Fontana” di Marcel Duchamp e Elsa von Freytag-Loringhovennel (che gli suggerì l’estetica del ready made e spedì il lavoro) del 1917 (firmata Mutt), rivoluzionò i linguaggi dell’arte, un orinatoio capovolto letto da un artista perché non lo si poteva leggere come una fontana e un oggetto d’arte?

L’opera fu rifiutata dalla commissione di cui lo stesso Marcel Duchamp faceva parte, e non venne esposta. La società d’artisti indipendenti, di cui Duchamp faceva parte, dimostrava di dipendere sostanzialmente da una idea e una prospettiva di visione legata alle problematiche dell’arte classica e conservatrice. In quel momento nasceva una visione della scultura e dell’elaborato plastico che andava ben oltre i materiali classici dell’arte, la visione dell’artista diventava il suo sguardo sulle cose che ricontestualizzate potevano diventare oggetto d’arte con pari dignità rispetto quello realizzato direttamente dall’artista, la realtà esteriore diventava uno strumento di pratica dell’arte che l’artista poteva utilizzare in chiave progettuale. Tutti oggi si è debitori di quell’operazione, e in buona sostanza concettualisti, situazionisti, land artisti e minimalisti non sono riusciti ad andare oltre quel passaggio. Oggi “Fontana” è Accademia della comunicazione artistica.

Nel 2003 a Iglesias un docente del Liceo Artistico, venne censurato in una mostra perché espose con un suo laboratorio una serie di tavolette del water con dipinte su le bandiere dei maggiori stati occidentali, denunciando in questa modalità quanto avveniva a Kabul, Guantanamo e in Palestina, lui Giampaolo Castiglione, palermitano, rispose a chi criticava l’operazione: la tavoletta è solo un supporto pittorico. L’opera installazione venne ritirata. Lo stesso impianto narrativo e comunicativo c’è nella “merda d’artista” di Piero Manzoni e specialmente in “America” di Maurizio Cattelan, water d’oro funzionante, realizzato per il Museo Solomon R. Guggenheim nel 2016 interamente in oro 18 carati dal peso di 103 kg, lavoro rubato nel 2019 che invitava a espletare i propri bisogni organici, nella ricchezza dell’occidente incarnata dagli Stati Uniti d’America sotto forma di water, con il sogno americano ridotto alla possibilità di espletare in un water dorato. Sul tema c’è un’ampia letteratura che arriva a Sgarbi, che indiscutibilmente sa cosa sia la Storia dell’arte, da sempre ha il talento d’accentrare l’attenzione massmediatica di tutto ciò che lo riguarda, con accurate operazioni di marketing della provocazione, e l’artista Paolo Lelli, di cui io non sapevo nulla prima che un suo discusso lavoro facesse parte della selezione “I Mille di Sgarbi”.

L’opera di Paolo Lelli è una turca autentica dove è possibile espletare i propri bisogni, ma oltre la Duchampiana didascalia, che sarebbe forse bastata concettualmente, si è caricato ulteriormente il significato con uno sfondo rosso una mezza luna e una stella a cinque punte, la bandiera della Turchia. L’opera fotografata e postata sul profilo Facebook dallo stesso Sgarbi poco prima dell’inaugurazione della mostra, si trovava al primo piano del museo archeologico di Castiglion Fiorentino, in provincia di Arezzo. Il risultato del post è stato un linciaggio social all’onorevole storico dell’arte , e una diffusione virale della notizia della mostra, in un momento dove arte e cultura non sono in agenda nell’informazione nazionale. Lo storico dell’arte ha ammorbidito i toni, difendendo la libertà espressiva dell’arte e minimizzando il contenuto politico del lavoro, ha preso le distanze da un messaggio o contenuto politico e religioso, manifestando simpatia per Erdogan. Nel giro di ventiquattro ore l’opera è stata rimossa, così tanto per chiarire che la libertà di ricerca artistica lascia il tempo che trova politicamente.

Quello che mi turba sulla questione è: Come mai nessuno si è preso la briga di sentire Paolo Lelli (l’artista)? Se Paolo Lelli ritenesse giusto prendere posizione politica attraverso la consolidata pratica artistica del ready made contro Erdogan? Perché forzare la lettura di un lavoro nel nome del “è solo un opera d’arte”? Perché impedire a un artista di rappresentare (con chi è d’accordo con lui) un critico dissenso verso Erdogan? Perché negare all’artista di ricordarci la questione curda, violazioni della libertà di stampa, negazione del genocidio armeno, l’intervento in Siria e un pizzico d’omofobia? Perché negare un discreto e intimo gesto liberatorio a chi in questo momento si sente più europeo delle politiche Turche? Non sarà da queste cose, che si evince quanto e come, il ruolo dello storico dell’arte entri un pizzico in conflitto con quello dell’onorevole e dell’uomo di stato, nel gestire una questione complessa come quella della libertà di ricerca dell’artista contemporaneo?

I linguaggi dell’arte arrivano a tutti, a Instanbul c’è una storica università di Belle Arti e lo scontro diplomatico sarebbe stato inevitabile, sarà per questo che a Cagliari nel 2020 la pubblica alta formazione artistica è ancora assente? Per evitare che gli artisti diventino strumento di scontri diplomatici e democratici?

Da giovane studente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, ricordo una Scultura contemporanea di un mio collega di corso, che consapevole di quanto stesse diventando Accademia la provocazione, realizzò un lavoro intitolato “olio su tela”, mezza lattina d’olio per friggere su tela con tanto di macchia d’olio, lui si chiamava Gianni Sanseverino, oggi vive di ristorazione italiana in Brasile, aveva capito come la sensorialità dell’arte contemporanea stesse andando in una direzione di provocazione che poco aveva a che fare con lo studio e la ricerca, se a questo si toglie anche il contenuto, viene anche meno il presupposto dialettico e didattico che da sempre accompagna i linguaggi dell’arte nella storia dell’umano.

L’opinione di Mimmo Domenico Di Caterino