L’ultima serata del festival letterario Marina Café Noir a Cagliari, l’ha visto protagonista di un tango in coppia con la moglie Milena Mancini, sulle pedane del Corto Maltese, finito con un casquè d’altri tempi. Vinicio Marchioni è stato scelto per la diciannovesima edizione dell’evento culturale, che lo stesso ha definito sui social “uno dei festival più belli al mondo”. Nella giornata conclusiva, sabato 18 settembre, ha interpretato un brano inedito di Ernest Hemingway in occasione del sessantesimo anniversario dalla morte dello scrittore americano.

Tutti se lo ricordano sul grande schermo per l’interpretazione del Freddo nella fortunata serie “Romanzo criminale” (2008) di Stefano Sollima, ma l’attore romano ha sempre avuto un debole per la scrittura – appena preso il diploma si era iscritto in Lettere alla Sapienza di Roma – e per il teatro.

La sua carriera sul palcoscenico inizia con nientemeno che il Maestro Luca Ronconi, e oggi porta in scena, in qualità di regista, la trasposizione teatrale de “I soliti ignoti” (1958), capolavoro del cinema italiano contemporaneo diretto da Mario Monicelli. Una sfida importante, che segue quella alla direzione, per la prima volta, dell’opera “Uno zio Vanja” del drammaturgo russo Anton Checov.

L’attore si definisce “fortunato”, perché è riuscito, nonostante la pandemia, a lavorare, seppur non senza difficoltà, per cinema e tv: è stato interprete nell’acclamato film “I predatori” di Pietro Castellitto e nelle serie tv “Alfredino – Una storia italiana” di Marco Pontecorvo (Sky Italia) e “Il giorno e la notte” di Daniele Vicari (RaiPlay). D’altra parte, questo è stato un anno molto difficile per il mondo dello spettacolo dal vivo, che ancora oggi stenta a vedere quella benedetta luce in fondo al tunnel, e a cui è dedicata proprio questa edizione del festival: “Marinai perduti”, appunto.

La prima domanda è d’obbligo: pandemia e lavoratori dello spettacolo. Com’è andato il suo anno da attore? Vuole dire qualcosa riguardo la poca attenzione che il settore culturale ha ricevuto dalle nostre istituzioni?

Per quanto riguarda il cinema è stato un anno in cui ho lavorato tantissimo, ho fatto cose meravigliose con grandi registi, mentre dal punto di vista teatrale un disastro completo. Abbiamo interrotto la tournée de “I soliti ignoti”, non abbiamo debuttato ad aprile con “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Antonio Latella, è stato rimandato tutto quanto tra la fine dell’anno e l’inizio di quello nuovo, ammesso che si possa fare realmente. Su quello che è successo durante la pandemia l’abbiamo visto tutti: la pandemia ha portato in evidenza delle problematiche che esistono da sempre, soprattutto per il lavoro dello spettacolo dal vivo. Credo che ora sia fondamentale aumentare il numero degli spettatori nei teatri e nelle sale cinema. È impressionante vedere piazze riempite da due-tremila persone così come per gli stadi di calcio, mentre nei teatri dobbiamo tenere la capienza del cinquanta per cento che di fatto sta decretando la morte di tante realtà teatrali. Spero se ne rendano conto.

A dicembre porterà al Teatro Massimo di Cagliari la trasposizione teatrale del grande classico cinematografico “I soliti ignoti” di Mario Monicelli, di cui è regista. Una grande responsabilità. Secondo Lei cosa può dare il teatro in più a quest’opera?

Quello che può dare in più non lo so, stiamo parlando di uno dei capolavori della storia del cinema mondiale, la pietra miliare della Commedia all’italiana. Posso dire però qual è stata la mia esperienza. Da subito mi son reso conto di quanto la scrittura della sceneggiatura di quel film fosse già una scrittura che sembrava fatta apposta per il teatro, sia per le scene sia per i personaggi, che hanno delle caratteristiche molto semplici ma anche molto precise. Così mi sono ispirato in qualche modo ai personaggi della Commedia dell’arte per tutta la pièce, e forse è stata questa l’intuizione migliore per questa trasposizione. Fortunatamente il pubblico ci ha dato ragione.

Da poco ha partecipato in qualità di direttore, insieme a sua moglie Milena Mancini, anche lei attrice, al Ginesio Fest, che prende il nome dal borgo medievale colpito dal terremoto nel 2016. Qual è la forza di un evento culturale in termini di rinascita?

L’idea era proprio quella di portare luce e visibilità per accelerare le pratiche della ricostruzione dopo il terremoto, di ripopolare attraverso il fare teatro, occuparsi di tutti i mestieri che fanno parte dello spettacolo dal vivo. Non volevamo che fossero “gli spettacoli” i protagonisti, ma che il pubblico e gli addetti ai lavori potessero incontrarsi per fare il punto della situazione dello spettacolo dal vivo, anno dopo anno, e coinvolgere anche le maestranze. Poter quindi parlare non solo con attori e registi, ma anche di drammaturgia contemporanea dei grandi maestri che abbiamo che realizzano dei costumi straordinari, scenografia, direttori di luci e in generale di tutti coloro che lavorano per gli spettacoli dal vivo, di cui ci si occupa sempre meno e di cui non parla più nessuno. Già non si occupa più quasi nessuno degli attori, figuriamoci delle maestranze. Invece lo spettacolo dal vivo è ancora uno dei rari mestieri che si fanno veramente in squadra ed è fondamentale parlarne, anche coinvolgendo le scuole di recitazione. Quest’anno ad esempio abbiamo avuto una decina di allievi della scuola del Teatro Brancaccio di Roma, ma ci rivolgiamo anche altre scuole, come l’Accademia d’arte drammatica di Firenze, per poter ospitare durante tutto l’anno dei laboratori, delle residenze artistiche, coinvolgendo grandi direttori, grandi attori, sceneggiatori e direttori luci, che vengano per una settimana ad insegnare o a fare una masterclass con questi allievi. In questo modo si ripopola, si rianima attraverso fare teatro.

Possiamo dire, però, che in questi ultimi anni c’è stata anche una “nuova ondata” di giovani attori e attrici grazie anche a piattaforme di streaming come Netflix?

Sì e sono anche bravissimi e bravissime. Ce ne sono anche tantissimi e tantissime dal punto di vista teatrale, anche se se ne parla di meno, e invece bisognerebbe parlarne un po’ di più. Per fare un esempio, l’anno scorso sono andato alla Biennale Teatro di Venezia e non ne parlava nessuno. Non c’era nessuno che documentasse l’eccellenza teatrale italiana con tanto di Leoni d’oro e d’argento. E questa cosa fa impressione, esiste un’eccellenza per il cinema ma anche per il teatro. Bisogna parlarne, se no il teatro resterà sempre una robetta di nicchia e non entrerà mai nella quotidianità delle persone. Io vivo nell’utopia che ciò che è successo nell’antica Grecia del quarto secolo avanti Cristo possa in qualche modo ritornare prima o poi. Ci dobbiamo impegnare tutti un po’ di più.

A proposito di festival di cinema, quest’anno è scaturita una grossa polemica in seguito all’intervento di Roberto Benigni, che nel ricevere il premio alla carriera a Venezia, lo ha dedicato a sua moglie Nicoletta Braschi, anche lei attrice. È stata criticata la sua posizione privilegiata di uomo, cosa ne pensa?

Io ho visto soltanto un uomo che da quarant’anni o forse di più sta con una donna e le ha fatto una dedica. Se poi questo vuol dire che sostenere che dietro un grande uomo, c’è sempre una grande donna è una visione maschilista del mondo, sicuramente lo è. Su questo sono d’accordissimo. Però dobbiamo ragionare su un atteggiamento da cambiare strutturalmente nella concezione maschilista di un Paese tradizionalmente maschilista. Tantissime cose vanno estirpate alla radice, e dobbiamo essere noi maschi i primi a pretenderlo. Detto questo, se un uomo fa una dichiarazione d’amore a sua moglie non ci trovo nulla di male, ringraziamo che ci siano ancora degli uomini che regalano un fiore ad una donna.

Questa sera leggerà un brano di Ernest Hemingway, l’autore del best-seller “Il vecchio e il mare” e personaggio pienamente contemporaneo, fuori dagli schemi, tanto da entrare a far parte della cosiddetta “generazione perduta”. Cosa dobbiamo ricordare di questo scrittore?

Sì è un brano inedito e trovo che sia una scelta meravigliosa, soprattutto per il nome di quest’anno del festival: “Marinai perduti”. Hemingway sarebbe uno di quei personaggi oggi molto controversi: amante della caccia, maschilista, pansessuale, oggi lo crocifiggerebbero. Detto questo è stato uno dei più grandi scrittori del mondo e in qualche modo ha influenzato l’istinto e la mente di tanti uomini e tante donne amanti della grande letteratura. A me Hemingway ha aperto le porte del viaggio, ad esempio, è collegato ad un’idea di scoperta, di fame di vita, di bramosia di inseguire un’utopia. Tutta questa voglia di riempire dei vuoti fino alla fine, scelte che lui ha pagato personalmente – quindi massimo rispetto per lui – è uno scrittore immortale come tutti quelli che stanno nell’Olimpo della letteratura. È un inedito meraviglioso che sintetizza, attraverso la metafora della pesca che era una sua grandissima passione, la meraviglia degli sconfitti. Viviamo in un’epoca in cui bisogna vincere, bisogna arrivare primi, in cui i numeri devono contare, in cui i follower contano più dei contenuti. In un periodo come questo, riscoprire i grandi maestri della letteratura, l’importanza di fallire, di perdersi e di non sapere realmente di perdersi, di non avere una coordinata, e assumersi una responsabilità di scelta quando intorno a te c’è solo nebbia, penso che farebbe bene non solo alle nuove generazioni ma anche a tutti noi, che mi sembra che abbiamo perduto completamente l’orientamento.

Sì, quando si parla di Hemingway si parla anche di “grace under pressure”, e cioè di trovare la forza, l’energia, la disinvoltura, anche in situazioni di difficoltà.

È un atteggiamento filosofico di vita. Mi ricorda un grandissimo insegnamento che non mi ricordo chi ha detto: alla fine bisogna solo scegliere se essere felici o no, qualsiasi cosa ti capiti.

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