Donna Maurizia si sta dirigendo, in sella al suo cavallo, armata, verso il tribunale di Nuoro per assistere al processo in cui saranno condannati i presunti assassini e il mandante dell’omicidio del primo genero, Carlo. Quello che vuole è corrompere i giudici e i testimoni, a tutti i costi.

Le donne di Grazia Deledda sono queste: irriverenti, senza scrupoli, libere. Tutt’altro che “brave massaie”, così come la definì lo scrittore Luigi Pirandello in occasione del Premio Nobel per la Letteratura nel 1926, il primo e unico ottenuto da una scrittrice italiana. Chi ha letto – divorato, anzi – i suoi romanzi, oltre al best-seller Canne al vento (1913), lo sa. Le figure femminili che riempiono le pagine firmate dall’autrice nuorese sono protagoniste alla ribalta di un mondo che tenta di relegarle a donne di casa, pronte a ricevere i compiti assegnati loro da una società in cui ai vertici ci son soltanto uomini.

Ma la Sardegna, già dalla nascita della civiltà mediterranea, è terra matriarcale: sono le donne a prendere le decisioni in famiglia, mentre gli uomini eseguono. I ritratti che Deledda fa dei personaggi maschili, infatti, non sono troppo generosi: don Stefano Arca è un “gentiluomo fannullone e annoiato”; don Piane fa colazione con latte e biscotti, roba “da femminucce”; Elias Portolu ha una carnagione molto chiara e Giacinto è un bel biondo mentre Fortunio, lo zoppo che ruberà il primo abbraccio appassionato a Cosima, scrive poesie d’amore. Tratti che, evidentemente, vogliono stroncare una volta per tutte l’immagine dell’uomo forte e in particolare di quello sardo, rude e incivile, molto comune anche all’epoca. D’altronde anche suo padre, Giovanni Antonio Deledda, che di mestiere si occupava di commercio e agricoltura (e fu sindaco di Nuoro nel 1863), s’interessava di poesia e componeva versi in sardo.

Sebbene l’educazione impartitale dalla madre Francesca Cambosu, donna severa d’altri tempi, l’abbia messa in imbarazzo più volte nel corso della sua fase adolescenziale, fu anche uno stimolo per reagire alla volontà matrigna e farsi da sé. Con i suoi libri – si dirà sempre fiera della sua formazione da autodidatta – e la sua fervida immaginazione, che lasciava libera di esprimersi di fronte all’orizzonte che si affacciava sui monti dell’Ortobene, mai dimenticati nelle sue pagine.

C’è un momento esatto, però, in cui si potrebbe pensare che l’autrice esprima appieno la sua consapevolezza di donna fatta ed emancipata. È il 1930 e viene pubblicato il romanzo Il paese del vento, testo quasi autobiografico dato alle stampe appena sei anni prima della sua morte, causata da un tumore al seno di cui la stessa era a conoscenza. Qui l’autrice si fa forza delle esperienze passate, prende carta e calamaio, e si confida con i suoi lettori – e lettrici -, raccontandola tutta.

“Nonostante tutte le precauzioni e i provvedimenti del caso, il nostro viaggio di nozze fu disastroso”, è quel che conclude Nina, senza se e senza ma, nell’incipit del romanzo. Una sentenza che la libera fin da subito di tutto quel non detto tipico della società del suo tempo. Il sogno promesso di un amore idilliaco con il consorte giunge al termine e si trasforma in un incubo, dove la protagonista – e forse proprio l’autrice – si sente “sola al mondo e, peggio che sola, schiava di una sorte equivoca”. In quegli anni Grazia Deledda ha lasciato l’Isola da un bel po’ e si trova a Roma con il marito Palmiro Madesani, un funzionario del Ministero delle Finanze, conosciuto a Cagliari, dove si trasferì da settembre a novembre del 1899. Prima città in cui iniziò a fare conoscenza dei salotti per bene e tessere contatti con personaggi influenti del capoluogo. “Fu un’altra cosa”, scrisse l’autrice. Con il successo arrivatole con la pubblicazione del romanzo Elias Portolu (1903), sarà proprio il giovane marito a offrirsi come suo agente letterario. E ancora una volta, i ruoli si capovolgono.

Gli anni Trenta sono gli anni fascisti, in cui Benito Mussolini esorta di continuo la scrittrice sarda a realizzare dei manuali scolastici. Il Duce era un suo ammiratore e consigliò un suo libro anche all’amante Claretta Petacci. L’autrice, però, rifiuterà sempre con garbo: “L’arte non fa politica”, gli rispose.

Una mezza verità, che le permise di raccontare proprio in quegli anni la storia di Nina, che si ribellava alla propaganda della buona moglie e madre di famiglia, attenta alle faccende domestiche e alla sua stirpe. La prima notte di luna di miele, la giovane sposa rifiuta l’uomo con il quale condivide il letto di nozze. Il vento, protagonista insieme ai due, batte forte sulle finestre, fuori c’è una bufera e anche dentro l’atmosfera si fa sempre più cupa. Quell’uomo che aveva scelto come compagno di vita, “di momento in momento diventava quasi un nemico”. Tutto quel che si dovrebbe aspettare da una giovane coppia appena convolata a nozze, in questa storia non c’è. Tutt’altro.

Ci son tutte le contraddizioni di una donna ribelle, pienamente consapevole del “paesetto” in cui si trova, dove tutti la osservano in quanto “moglie di”, ma allo stesso tempo pronta a fare solo e soltanto ciò che le dice l’istinto, senza alcuna imposizione. Sarà lei la protagonista del banchetto organizzato per festeggiare l’assunzione di una carica importante affidata al marito. E sarà sempre lei a rifiutare un amore non ancora sopito, quasi un tradimento celato al consorte, facendosi ancora una volta protagonista delle sue scelte.

Così come “quel vento che viene da nord-ovest”, forte e rabbioso, violento, che Grazia Deledda sembra sentirsi addosso ancora in quegli anni, quando si trovava in realtà nel versante opposto della riva. È quel che smuove tutte le sue pagine, il suo destino di donna “piccola, scura, diffidente e sognante, come una beduina che pur dal limite della sua tenda intravede ai confini del deserto i miraggi d’oro in un mondo fantastico”. Se lo porterà sempre con sé, mutevole e irruento, fino alla fine.

Leggi le altre notizie su www.cagliaripad.it