Sono stati quasi una decina in meno di due mesi i casi di suicidio nella Casa Circondariale di Sassari-Bancali. Preoccupano le continue segnalazioni di interventi delle Agenti della Polizia Penitenziaria e dei Sanitari per scongiurare atti estremi di autolesionismo. A preoccupare è soprattutto la situazione di disagio vissuta dalle detenute nelle carceri sarde. A lanciare l’allarme è Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che – prendendo in esame i dati ministeriali e le sollecitazioni delle principali sigle sindacali del personale penitenziario – sottolinea “la scarsa propensione alla commissione di reati in particolare delle donne sarde e la necessità di disporre di strutture alternative al carcere”.

“A creare sgomento è il numero irrisorio di donne private della libertà e il profondo disagio di alcune di loro – evidenzia Caligaris -. Purtroppo la realtà femminile nelle due Case Circondariali di Sassari e Cagliari è molto complessa per diversi ordini di motivi che richiedono urgenti interventi personalizzati. Appare paradossale che in una regione come la Sardegna dove sono complessivamente ristrette 25 donne su 1985 detenuti, con una percentuale dell’1,2%, la più bassa d’Italia (al secondo posto c’è la Calabria con l’1,85% di presenze femminili dietro le sbarre), possano verificarsi atti così gravi e preoccupanti. In realtà è opportuno sottolineare che, aldilà del numero (9 donne a Bancali e 16 a Uta) sono altri i fattori che rendono particolarmente problematica la vita in cella delle donne”.
Tra le maggiori criticità, sottolinea Caligaris, vi è innanzitutto la distanza dalla famiglia. “Molte detenute infatti sono straniere e sentono il peso del distacco dai figli e/o dalla famiglia. Non le aiuta la scarsa conoscenza della lingua e della cultura locale. Tante faticano a condividere un percorso riabilitativo perché in un ambito così ristretto e con pene detentive “brevi” risulta spesso impossibile poter accedere a corsi professionali o attività che possano condurle a scelte di vita alternative, dopo aver scontato la pena. Le possibilità di accedere al lavoro interno sono limitate e quello esterno è condizionato dal livello professionale. Spesso per fare la scopina nascono tensioni. Anche la scuola viene vissuta più come un’occasione per uscire dalla cella che come un’opportunità. Talvolta la condizione di perdita della libertà viene considerata un errore indotto dal bisogno della famiglia e/o dal soddisfacimento di una necessità personale sentendosi quindi vittima della propria dabbenaggine o ingenuità, fino a cadere in depressione. C’è poi il problema del soddisfacimento della sfera affettiva e sessuale che in carcere é svalutato e/o negato. Sicuramente il COVID19, con le limitazioni imposte ai colloqui con i familiari, ha accentuato il senso di solitudine e abbandono che gioca un ruolo”.

“È indubbio che la realtà femminile dietro le sbarre è trascurata perché ritenuta poco significativa – evidenzia Maria Grazia Caligaris -. Non si può però nascondere che sono necessari interventi personalizzati con individuazione delle problematiche personali e la gestione dell’aggressività verso sé stesse e verso le altre. Un progetto che prevede soluzioni alternative alla detenzione e investimenti culturali e sociali anche per rispettare il difficile lavoro che le Agenti e le Educatrici portano avanti con sempre maggiore difficoltà”.

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