Nessun finanziamento alla Sardegna per lo screening dell’epatite C. “Il motivo è che la Regione non accede ai vari piani nazionali legati ai farmaci innovativi e a strumenti similari”, ha detto il professore Luchino Chessa, dirigente medico di Epatologia presso l’Aou di Cagliari in occasione del corso di formazione ECM sulla gestione dei tossicodipendenti con epatite C.

Il corso, dal titolo “Diagnosi e trattamento dell’epatite C nel paziente con disturbi da addiction – Il valore del network locale sul territorio di Cagliari e Sassari”, rientra nell’ambito di HAND – Hepatitis in Addiction Network Delivery, il progetto di networking a livello nazionale patrocinato da quattro società scientifiche (SIMIT, FeDerSerD, SIPaD e SITD) che dal 2019 coinvolge i servizi per le dipendenze e i centri di cura per l’Hcv afferenti a diverse città italiane.

Chessa ha poi precisato che “a livello nazionale, grazie al Piter, una piattaforma importante legata all’Istituto Superiore di Sanità, il primo screening verrà fatto sarà sui Ser.D., sulle carceri e sulla popolazione di ‘giovani’ degli anni ’68 – ’88”. Lo screening, però, sarebbe dovuto iniziare nel 2020 e svolgersi anche nel 2021. “L’assessore alla Sanità della Sardegna, Mario Nieddu, ha a cuore il problema e si sta impegnando a cercare le risorse per poter iniziare anche da noi lo screening”, ha aggiunto poi Chessa.

Al corso ha preso parte anche la professoressa Ivana Maida, associato all’Aou di Sassari, che si è soffermata sulle alternative e sui test rapidi come carta vincente per far emergere il sommerso. Maida ha spiegato che “sicuramente un po’ per tutte le patologie la diagnosi rapida è quella che in maniera molto veloce ci permetterebbe di raggiungere tutti quei serbatoi di popolazione nei quali il virus dell’epatite C in questo momento continua ad essere un problema di sanità pubblica”. La diagnosi attraverso i test salivari e i test capillari rapidi, precisa Maida, fornirebbe veramente dati molto più precisi.

Sul fronte dei pazienti che afferiscono alla sua struttura, Maida ha informato che “Sassari ha un bacino piuttosto ampio di utenza, perché la struttura delle Malattie infettive, ma anche l’Epatologia, racchiude un po’ tutto il bacino del centro-nord Sardegna. La nostra struttura ha circa 3mila pazienti in follow-up epatopatici, gran parte dei quali sono già stati sottoposti a trattamenti antivirali, per cui gran parte ha già completato ed eradicato l’infezione. Altri sono ancora pazienti che potrebbero essere rapidamente inseriti nelle terapie, sempre che la pandemia ci permetta di tornare ad una normalità che ci manca ormai da oltre 20 mesi”.

Il professor Chessa ha aggiunto che “a Cagliari, come Azienda ospedaliera universitaria, seguiamo circa 7mila pazienti con patologie epatiche, di cui oltre la metà hanno l’epatite C. Abbiamo trattato circa 2.500 pazienti con farmaci antivirali ad azione diretta con risposte eccezionali: abbiamo avuto cinque ‘relapse’, ossia cinque persone nelle quali il virus si è riattivato dopo il trattamento. Da questo punto di vista sono, dunque, terapie veramente fantastiche”.

Sul fronte dei farmaci indicati per la cura e per il trattamento dell’epatite C, Chessa ha reso noto che “anche in tutta la Sardegna e a Cagliari il problema è che tutto ha subito un rallentamento nerl periodo Covid, ma stiamo riprendendo in maniera importante. I numeri stanno salendo progressivamente anche perché le pressioni sugli ospedali si stanno riducendo e si stanno riaprendo molte strutture. Noi attualmente stiamo lavorando molto con i Ser.D., un bacino importante di sommerso, mentre vediamo sempre meno pazienti ‘semplici’ e ‘normali’. Purtroppo, vediamo molte persone di una certa età che arrivano già con la cirrosi epatica avanzata e con l’epatite C”.

La professoressa Maida ha infine delineato la situazione a Sassari, sottolineando che “i trattamenti sono disponibili, i pazienti sono particolarmente consapevoli che queste terapie sono efficaci e c’è dunque una grande richiesta di essere trattati. Come per la struttura del Professor Chessa, anche noi abbiamo una stretta collaborazione con i Ser.D. ma anche con le strutture penitenziarie, dove la figura dell’infettivologo è diventata figura di grande rilievo proprio per le terapie. Anche noi abbiamo un progetto nel quale quasi un migliaio di pazienti seguiti dai Ser.D. stanno accedendo ai test di screening rapidi e alle terapie con una buona risposta, non solo dal punto di vista diagnostico ma anche terapeutico”, ha concluso.

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