foto di Pazza Idea Festival

Stefano Bartezzaghi è un nome che suonerà familiare a tutti gli appassionati di enigmistica, se non altro perché il semiologo, scrittore e giornalista milanese, laureato al Dams di Bologna con relatore Umberto Eco, è il secondo erede di Piero Bartezzaghi, noto ancora oggi per i suoi assai faticosi cruciverba della Settimana Enigmistica. Stefano, però, nonostante si diletti anche lui con la Repubblica in quella che potremmo definire una vera e propria “arte delle parole”, oggi si occupa di analizzare un concetto spesso abusato dai più: la creatività, al centro dei suoi saggi “Il falò delle novità” (2013), “Banalità” (2019) e “Mettere al mondo il mondo” (2021). Da dove nasce, come si sviluppa e che cosa può definirsi creativo oggi, in un mondo dove la “creation economy” la fa da padrona? È di questo che ha trattato nella serata di ieri, in apertura del Pazza Idea Festival, che si terrà fino a domenica 28 novembre, al Ghetto di Cagliari, e che alla sua decima edizione esplora lo “Sguardo altro”.

La lectio magistralis di Bartezzaghi dal titolo “Cosa abbiamo da dire di nuovo” è iniziata alle 20 di fronte a un pubblico che non vedeva l’ora di potersi riappropriare di spazi condivisi e di confrontarsi, in un anno e mezzo ormai così difficile, rispetto a un tema che ha scandito quotidianamente l’ultimo periodo della propria vita. Come ci si reinventa? Come ci si riscopre creativi? Il semiologo ha risposto: “Tutti vogliono essere creativi, ma è un concetto che ha fatto il suo esordio solo nel 1950”. I creativi, secondo Bartezzaghi, sono tanti a questo mondo e si esprimono in tante forme diverse: il design e la moda in generale hanno avuto un ruolo fondamentale nel provare a darne un’idea, spesso si pensa agli scrittori – fa l’esempio di Giacomo Leopardi, tra gli altri – ma la creatività si trova anche nella tecnologia, nel digitale, nei social network, basti pensare a Steve Jobs con i suoi “spettacoli” di presentazione dell’ultimo smartphone targato Apple, ma anche Elon Musk che tenta con la sua Tesla la strada dello spazio. Il punto, però, è che tutti prima o poi finiamo con l’essere banali. Nel momento in cui un prodotto entra nell’uso quotidiano della “massa”, perde il suo carattere di novità – componente fondamentale della creatività -. Ma probabilmente, come sostiene il semiologo, è proprio questa la nuova frontiera: la banalità è diventato il massimo riconoscimento per un creativo.

Nel 2020 le parole più cercate su Google sono state: coronavirus, elezioni Usa e Classroom, in cui si può dire che c’è proprio tutto: c’è la pandemia, il populismo estremo di Trump e la scuola. Vuole fare un pronostico per il 2021?

Ma chi lo sa! Però queste metriche che sono state rese possibili dal trattamento elettronico dei dati ci danno un po’ il contrario della creatività, ci sono dei meccanismi che sono molto potenti, che sono non di distinzione – i creativi fanno qualcosa meglio di qualcun altro, in modo più inventivo, più arguto -, invece sono dei meccanismi di confluenza. Sappiamo che Google ha dominato rispetto a tutti gli altri motori di ricerca perché il suo algoritmo considerava proprio la confluenza. E lì non ci rendiamo conto che poi cerchiamo tutti la stessa cosa, pensiamo di essere ognuno con la propria personalità e poi cosa cerchiamo? Ovviamente delle ricerche che fanno tutti.

A proposito di questo, oggi c’è una tendenza sempre più diffusa ad utilizzare sempre le stesse parole (sono circa 2mila, il “lessico fondamentale”), nelle stesse espressioni, nonostante ormai esistano diversi strumenti anche online molto forbiti tra enciclopedie, vocabolari e dizionari. Come se lo spiega?

Perché l’uso della lingua non ha un’origine libresca, non è che uno ha la Treccani e dunque estende il suo lessico. L’uso della lingua viene, appunto, dall’uso, viene dai discorsi, dal modo in cui si parla pubblicamente, da come sono richiesti esprimerci. Io scrivo sui giornali, sulla stampa generalista da non so quanti anni, dagli anni Ottanta. E mi son sempre sentito dire “semplifica il linguaggio, devi essere più semplice”, e a furia di essere più semplice alcune parole escono dall’uso. Quindi non basta che ci sia la Treccani, non è che noi andiamo a cercare la parola più difficile, lì funziona più che la creatività, l’aspetto di confluenza. Tutti vogliamo parlare come tutti e persino all’Università c’è un po’ una spinta ad esprimersi in un modo che sia comprensibile per gli studenti. Questo va benissimo, però gli studenti sono lì per imparare modi nuovi di esprimersi. Questo è un equivoco che va rotto, ci dev’essere una rottura, deve avvenire qualcosa che non ci aspettiamo, qualcosa che non sia già nell’orizzonte del possibile, se no non cresciamo mai.

Però possiamo dire che durante la pandemia internet e i social son stati un mezzo per sperimentare, reinventarsi, in poche parole creare. C’è chi ha lasciato il proprio lavoro per mettersi in proprio e fare qualcosa di nuovo, tra l’altro proprio nel periodo della cosiddetta “creation economy”.

Be, da questo punto di vista, molto particolare, la pandemia ha costituito una interruzione delle abitudini per tutti contemporaneamente. A marzo 2020 tutti hanno dovuto chiudersi in casa e seguire dei protocolli abbastanza rigidi, tra cui anche io seppure la mia vita non è cambiata tantissimo. Tante persone che avevano scelto di farsi una casa, un dormitorio perché poi il resto della vita si svolgeva fuori, si sono accorti che in questa casa mancavano degli spazi vitali, c’erano dei difetti e tra le prime cose che sono ripartite è stato tutto il commercio degli arredi e quant’altro. In questo molti hanno ripensato profondamente alla loro vita di relazione e professionale, perché molto spesso l’abitudine è una bestia. Lì, essendo stato una cosa brusca e inaspettata, hanno voluto considerarsi, vedersi da un altro punto di vista. E questo è certamente interessante.

Non posso non farle un’ultima domanda sull’enigmistica. Il mondo della Settimana enigmistica si divide in due grandi gruppi: chi, alla fine del cruciverba, cerca le parole che non sapeva e chi invece le lascia in bianco. Lei in che team si colloca?

Premetto che io non sono quello della Settimana Enigmistica, è mio fratello [Alessandro, ndr], faccio però dei cruciverba per La Repubblica, però io sono per il tirare a indovinare. Quando c’è una casella libera, dato che questa casella apparterrà sempre a due parole, noi abbiamo una competenza, sappiamo se è più probabile una o l’altra, quindi a quel punto tirare a indovinare e poi magari andare a controllare per vedere se si è indovinato, però bisogna provarci sempre. L’errore è una dimensione fondamentale, non dobbiamo avere paura di sbagliare.

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