Nel 1966 la Sardegna più interna, quella barbaricina di Orgosolo e dintorni, aveva già dovuto fare i conti con Graziano Mesina, detto Gratzianeddu. Penultimo degli unidici figli, sei fratelli e tre sorelle, del pastore orgolese Pasquale Mesina e di Caterina Pinna, si fece da subito conoscere per la sua esuberanza e la sua voglia di farsi notare in mezzo agli altri.

Soltanto in quarta elementare, infatti, come racconta lo stesso Mesina nella sua autobiografia, prese a pietrate il maestro e dovette lasciare la scuola per andare a lavorare in campagna come servo pastore. Lo stesso destino che era toccato ai suoi fratelli. Il primo arresto della “primula rossa” – come venne soprannominato – è del 1956, a 14 anni, per porto d’armi abusivo: era stato trovato in possesso di un fucile calibro 16 rubato. Fu condannato a cinque anni con due anni di perdono giudiziale.

Ma questo “perdono”, concesso probabilmente per la giovanissima età dell’allora servo pastore, non lo fermò, anzi. Voleva di più. In pochi anni raggiunse la vetta intestandosi la battaglia del banditismo sardo, fatto di rapimenti di persona, fucilate e pallottole, arresti e fughe dal carcere, alcune tentate, alcune riuscite: dieci su ventidue.

L’idea era quella di una vera e propria rivolta contro i “padroni”, una rivalsa sociale, che coinvolgesse l’intera comunità dei pastori sardi. Il suo mondo. E tanti lo acclamavano, le donne lo esaltavano come un giovane Che Guevara in mezzo al Mediterraneo. La sinistra di allòra non aveva mai preso apertamente posizione, stava lì a osservare. Mai veramente contro e mai veramente a favore. Tutti i crimini commessi dalla banda di Gratzianeddu passavano in secondo piano, perché il fine, in quel caso, giustificava i mezzi.

Tra i tanti finiti sotto gli uomini di Mesina, ci fu anche il piccolo Farouk Kassam, un bambino di 7 anni che nel 1992 venne rapito dal bandito Matteo Boe e i suoi, con la sola colpa di essere il figlio di Fateh Kassam, belga di origine indiana, gestore di un grande albergo a Porto Cervo. Questa volta, qualcuno storse il naso. Dopo il sequestro di De André e Dori Ghezzi, rapiti nel 1979 durante un soggiorno in Gallura, questo forse era troppo. Fu Mesina a fare da mediatore tra le parti, venne fatto uscire appositamente dal carcere per chiudere la vicenda del piccolo Farouk: un riscatto che costò ben 5 miliardi e 300 milioni di vecchie lire, tra i più alti visti per un rapimento di persona in Sardegna. La somma non venne dichiarata in sede processuale, ma venne chiarita dallo stesso Mesina.

Questo forse fu uno dei punti di svolta che svelarono la reale motivazione che stava dietro alla figura di Graziano Mesina. Il banditismo sardo era per pochi, che si arricchivano, mentre gli altri dovevano stare a seguire le regole. O con noi o contro di noi. Il sociologo e scrittore Nicolò Migheli lo scrisse chiaramente in un articolo che porta la sua firma, pubblicato nel 2013. “Il banditismo sardo è stato una delle maggiori leve di distruzione della pastoralità – diceva Migheli in tempi non sospetti – è stato l’alibi per un etnocidio culturale. Basta rileggersi le conclusioni dell’inchiesta parlamentare del senatore Medici, dove l’unica modernizzazione possibile era lo sradicamento di un modello economico antico in favore di una effimera industrializzazione. Togliere l’acqua ai pesci”.

La Sardegna intera fu “soggiogata dal mito del ribelle, senza capire che quel fenomeno era una via facile verso l’arricchimento personale”, scrive ancora Migheli. Se prima si reinvestiva in tanche, dopo si è iniziato con il narcotraffico. L’inizio del disvelamento di una vera e propria farsa, durata troppo a lungo, che ha finito per far nascere uno stigma duro a morire nei confronti degli orgosolesi, e dell’Isola intera. “È finito il tempo della facile giustificazione – ragionava Migheli ormai otto anni fa – perché quell’uomo ha toccato l’intoccabile. Mentre il sequestro di persona, nonostante il suo abominio, poteva essere visto come una redistribuzione del reddito, del “ricco” che paga ed altri che ne godono, la droga tocca tutti. Distrugge famiglie e patrimoni, nega il futuro a generazioni intere; non conosce differenziazioni di classe e di reddito”.

È stato lui, con il beneplacito della stampa locale e nazionale, dei suoi seguaci e dei suoi ammiratori – perché così si devono chiamare – ad aver creato un mito, ed è stato lui, allo stesso modo, ad averlo ucciso.

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