Peppino Fiori, che di gran lunga è stato il più poetico tra i giornalisti sardi, l’aveva definita “la società del malessere”.
Erano gli anni Sessanta e la modernità bussava alle porte dell’Isola, portando, con il boom economico, uno stravolgimento antropologico che avrebbe sfigurato per sempre il volto della società tradizionale. Un’Isola gravata da secoli di povertà e soprusi, ma anche fortemente radicata a una metafisica egualitaria, assaggiava il sapore amaro di una nuova ingiustizia – dalla svendita e deturpazione delle coste allo svuotamento della lingua e dei paesi – masticando un ambiguo e distorto desiderio di rivalsa che troppo spesso sfociava nell’autolesionistico autogol del banditismo.
Oggi la società del malessere non esiste più. Privati della propria cultura materiale e scippati della propria, più intima identità, i paesi, lungi da essere quei luoghi in cui “su bixinau” si faceva substrato esistenziale prima che culturale, vivono nel limbo del fine vita. I loro abitanti, un tempo parte di una comunità, sono diventati monadi che vivono individualmente, scisse dalla collettività, senza un progetto di vita che ne unisca i fili. Come una sinfonia senza orchestra.
Le città hanno amplificato questo nuovo malessere facendolo diventare da sentimento momentaneo a basamento ontologico definitivo. I progetti dell’ex-sistenza, un tempo incentrati sull’idea di futuro, si sono ridimensionati e si fermano alla mera sopravvivenza quotidiana. Così che la pandemia, qui più che altrove, può essere definita la più grande sciagura che si potesse abbattere sul nostro mercato sociale, e di riflesso sulla nostra specie.
Nessun evento di portata mondiale, nemmeno la più devastante guerra fino a oggi combattuta, la Grande Guerra, che tanti morti regalò alla nostra terra, ha creato uno scompenso pari a quello che viviamo, e che ci impedisce di “abitare” il mondo.
Si abita il mondo quando si intrattiene con “le cose” un rapporto essenziale: se si soggiorna presso di esse. Le cose del mondo – le strade, le piazze, gli alberi e il mare, il cielo e il sole, la nostra casa in montagna, il nostro luogo di ritrovo preferito, la biblioteca o il bar – non sono solo posti o oggetti, correlati per caso della nostra conoscenza, né strumenti da usare: sono qualcosa di molto di più: la possibilità stessa del nostro esser-ci. E invece le stiamo abbandonando.
Solo l’uomo che abita il mondo può “aver cura” e “prendersi cura”, e dunque costruire nel mondo il proprio presente e il proprio destino. L’uomo abita, costruisce veramente se stesso solo dentro un mondo esterno, se instaura una relazione con “gli altri” e assicura un luogo alle cose avendone cura: custodendole.
Vivere nel mondo significa dunque attraversare ogni giorno un ponte, i cui itinerari affrettati o esitanti permettono sempre di raggiungere altre rive, di passare “altrove”. Il ponte ci permette di trascendere la vita limitata, superando la morte (un tempo lo chiamavamo il “progetto di vita”), e aprire quello spazio essenziale per inventare, creare ogni giorno da capo.
E invece siamo tutti fermi, a coltivare il nostro sradicamento e la nostra solitudine senza cogliere che la vera crisi riguarda la struttura costitutiva – ontologica – fondamentale, del nostro essere nel mondo. La conclusione è amarissima: senza “cura”, degli altri e delle cose, siamo finiti.
E così dalla “società del malessere” siamo arrivati alle “monadi del non-essere”. Viviamo in questo mondo, inchiodati al qui e ora: ma non viviamo più.
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