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Secondo un recente studio dell’Università di Siena, la pandemia ha influenzato anche le abitudini dei più giovani. Di solito gli adolescenti amano uscire con gli amici e hanno energia da vendere, ma la pandemia ha avuto anche su di loro un impatto consistente: il 40% dei ragazzi dice di uscire molto meno rispetto a prima e molti non si allenano più o lo fanno di meno.
In quanto sport più popolare del Paese, il calcio ha una funzione sociale importantissima: aggrega, favorisce le conoscenze e garantisce divertimento e socializzazione. Gli ultimi dati ufficiali (LND – Lega Nazonale Dilettanti) sono riferiti all’epoca pre-pandemia: nel 2019 si contavano a livello dilettantistico 12.032 società e 64.372 squadre di calcio, per un totale di oltre un milione di calciatrici e calciatori, di cui oltre un terzo nell’attività di Settore Giovanile e Scolastico.
L’effetto del lockdown prima e delle limitazioni all’attività calcistica nei quasi due anni successivi ha prodotto la sospensione dell’attività delle scuole calcio per diversi mesi e costretto ad interrompere lo svolgimento delle partite e dei campionati.
Le conseguenze di tutto questo sono sia economiche che sociali: molte società non hanno riscosso il totale delle quote di iscrizione, mentre quelle che lo hanno fatto, spesso hanno dovuto optare per una scelta di buon senso, restituendo alle famiglie una parte della quota in modo da mantenere un buon rapporto con la comunità in vista degli anni successivi. Oltre ai fattori di rischio riconducibili all’impossibilità di giocare a calcio negli scorsi mesi, la recessione economica che si prospetta costringe molti imprenditori a rinunciare in tutto o in parte ai loro investimenti nel calcio per tutelare la continuità aziendale della loro attività principale.
Stando a un’indagine di Coni – Sport e Salute, nel periodo tra maggio 2020 e febbraio 2021, in generale più di 9 organizzazioni sportive su 10 (il 91%) hanno riscontrato una perdita di utenza e, tra queste, il 40% dichiara di aver perso oltre la metà dei propri praticanti. I dati sui praticanti tra i più giovani sono molto indicativi: tra i bambini che praticano attività sportiva c’è stato un calo del 25%, che sale 29 tra i ragazzi più grandi.
Oltre alle conseguenze sul benessere psico-fisico dei giovani, che una maggiore sedentarietà contribuisce ovviamente a peggiorare, quello che la ricerca del Coni evidenzia con maggiore preoccupazione (in particolare da parte dei genitori) è l’impatto sulle relazioni sociali. Qui i numeri dovranno certamente essere messi in relazioni con quelli del periodo più recente, che dovrebbe contribuire ad invertire un po’ il trend; ma la fotografia che ne emerge va comunque tenuta in esame: per il 93% per cento dei ragazzi tra gli 11 e i 14 anni le principali modalità di contatto sono i giochi on line e i social network (percentuale che sale al 95% degli over 14). Addirittura, oltre 2 bambini su 3 compresi tra i 6 e gli 11 anni utilizza ormai questi mezzi per tenere i rapporti con i propri coetanei.
Togliere loro lo sport vuol dire anche privarli di buona parte delle loro relazioni sociali e quindi, come conseguenza peggiore, creare loro danni di carattere psicologico. Secondo alcune ricerche, il 31 % dei ragazzi manifesta disturbi da stress post traumatico grave e il 40 % soffre di depressione, per non parlare degli episodi di violenza e aggressività fra i giovani.
Durante una interrogazione al Parlamento Europeo, l’avvocato e parlamentare Alessandra Basso ha dichiarato che “la noia e l’impossibilità di sfogare trova le energie giovanili hanno portato all’incremento delle baby gang”, denunciando che il rischio è quello di “una bomba sociale che esploderà quando i nostri figli dovranno entrare nel mondo del lavoro e si troveranno minati da una forte fragilità psicologica”.

Marco Rosignoli

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