Sono tanti gli autori, scrittori e registi, che hanno voluto raccontare la Cagliari di San Michele, Is Mirrionis o Sant’Elia. Un mondo a sé, che ha sempre tenuto a rivendicare le proprie orgini, il proprio slang, il proprio stile di vita. Nessuno, però, aveva raccontato prima d’ora il quartiere del CEP, creato attorno alla metà degli anni Sessanta, tra piazza Giovanni XXIII e i palazzoni che si affacciano su Pirri.

Non era semplice addentrarsi in un posto in cui non c’è alcun motivo di andare, a meno che non debba far visita a qualcuno. Ci ha pensato Lorenzo Scano, 29 anni compiuti poco fa, scrittore di Frutti D’Oro, appassionato del genere noir. Che poi è lo stesso che ha scelto per scrivere il suo romanzo d’esordio “Via libera”, pubblicato un anno fa con la Rizzoli, con cui è sotto contratto, seguito dall’agenzia letteraria cagliaritana Kamala.

Quand’è che sei diventato scrittore?

Sono cresciuto in una casa dove si è sempre letto molto, i miei genitori quando prendevo un bel voto a scuola mi regalavano un libro. La lettura è arrivata prima della scrittura. Mi sono accorto che quello che leggevo volevo scriverlo anch’io. Mia madre mi metteva il voto. Sin dagli inizi era già chiaro che mi interessava, avevo una particolarità: le mie storie non erano ambientate in chissà quale città, ma sceglievo sempre i dintorni di casa. Sono cresciuto a Frutti D’Oro, in un quartiere residenziale, ma che si affaccia anche sulla campagna, nei boschi. Poi ho affinato le mie letture e la scrittura è cambiata. Se prima leggevo ‘Piccoli brividi’, poi ho letto i grandi gialli e infine son arrivato al noir. La domenica a pranzo andavo a casa di mio nonno, dove c’era un’immensa libreria. Qui ho scoperto per primo ‘Los Angeles Confidential’ di James Ellroy. Sono subito stato suggestionato da queste atmosfere e ho continuato a scrivere. È stato un processo molto lungo, ci ho messo vent’anni per arrivare fino a qui.

Oggi si legge sempre meno, ma ogni giorno esce fuori un nuovo scrittore. Come la vedi?

Storco il naso quando vedo queste operazioni del tipo ‘a vent’anni è nata la nuova scrittrice’. Io credo che sia difficile arrivare a padroneggiare la scrittura con una major: devi avere consapevolezza della scrittura, che vuol dire tecnica, temi, e poi devi avere un occhio per quella che è la richiesta del pubblico. Per me è stato un processo molto lungo, poi mi capita a volte il colpo di genio. Ma devo ammettere che anni fa non avevo la completezza tecnica di scrivere, né l’esperienza. Se ci pensi a vent’anni non esiste il grigio, bisogna darsi tempo per indagarlo. Il noir, genere che io prediligo, è quella zona grigia che non ha confini netti: quello è il giallo, dove il personaggio buono risolve il delitto. Nel noir questo non c’è. Oggi poi c’è la tendenza a dare l’etichetta di noir un po’ a tutto ma non è così. Nel mondo anglosassone ogni genere ha un nome: mistery, crime keeper, thriller e così via. Sono cose che arrivi a capire dopo che le hai esplorate.

I social, però, possono dare una mano ad emergere.

Ho cercato di trovare un compromesso in questo. Le case editrici vogliono vendere prima l’autore del libro. Dopotutto, viviamo nel mondo dell’immagine. I social li uso per promuovere la scrittura del noir, consiglio letture, e mi mostro per quel che sono e faccio tutti i giorni. Non sono un fanatico dei social.

Dove trovi l’ispirazione per le tue storie?

L’ispirazione è una cosa costante per un autore, per me è stata una ossessione. Quando hai delle suggestioni, ti siedi e scrivi. Io queste suggestioni le ho sempre, anche al bar quando faccio una chiacchierata con qualcuno. Dopodiché subentra la meccanica, le suggestioni le fai diventare tecnica. Quando sono per strada mi immagino sempre qualcosa che può succedere dietro quelle finestre. Sta anche a te trovare gli spunti per essere continuamente influenzato. Quando arrivi a certi livelli, poi, hai delle scadenze, devi consegnare il libro per tempo. La mia giornata va più o meno così: prima delle 9 non mi metto a lavorare, ma prendo il giornale e leggo le notizie di cronaca. Ci sono giorni in cui vado in palestra, e lì le suggestioni arrivano. Scendo a Cagliari e cammino, quando sono in fase di scrittura mi piace un po’ perdermi. E poi riprendo dopo cena, la notte, una o due orette, che poi è una rilettura di quello che ho scritto. Scrivo perché mi piace, è una fatica, sarebbe strano se non avessi questa routine.

A proposito di palestra, ha una qualche influenza sulla tua scrittura?

La scrittura e la palestra sono molto simili: se vuoi farle bene, ogni giorno devi mettere un tassello in più. C’è un lavorio costante che le persone non vedono. Aumenti, ripetizioni, carico di pesi ed altri esercizi. Niente nella mia scrittura è lasciata al caso.

Veniamo al dunque: come mai hai scelto proprio il CEP?

Per prima cosa, perché da un punto di vista visivo colpisce: c’è l’Asse mediano, i palazzoni che sembrano quelli del Bronx, non sembra nemmeno di stare in Sardegna. È il quartiere di Cagliari meno popolare e meno conosciuto. Non è come San Michele e Is Mirrionis. Il CEP è un po’ un ghetto: i palazzoni sono cintati da due serie semicircolari di villette, non hai motivo di andarci a meno che non conosci qualcuno. Mio padrino è cresciuto lì, quindi mi ha sempre raccontato queste storie un po’ colorate. È stata una cosa naturale scrivere ‘Via libera’. Penso sia stata una scelta vincente. Tutti si sono convinti che io sia quel ragazzo del CEP, ma in realtà ci sono finito per altri motivi. Poi ho stretto amicizia con persone che vivono lì. Una volta sono passato in via Flavio Gioia, mi hanno fischiato, mi giro e mi dicono: ‘Ma sai chi sono io? Sono Marco…’. Io avevo già sentito delle storie su di lui, e mi ha detto che sapeva che avevo scritto quel libro. Alla fine ci sono diventato amico. Per loro è stata una sorpresa, che parlassero di loro. Qualcuno si è anche sentito esaltato nell’essere raccontato.

Spesso si tende a identificare questi quartieri con lo spaccio di droga. Tu come ti rapporti a questi temi?

Il contesto non è così diverso da quel che si possa credere, anche a Frutti D’Oro c’è stata una piazza di spaccio importante: c’era chi ci passava marginalmente, come me, ma sono cose che hai sempre visto fare. Molti alla mia età si sono persi. Oggi secondo me si crea un allarmismo eccessivo, se pensi che negli anni ’80-’90 c’era una fila di tossici che non finiva più in viale Pitagora. Morivano anche dieci persone alla settimana. Certo c’è il problema dei ragazzini che iniziano ad assumere droghe da prestissimo, e che poi vanno in centro, ma non solo. A Cagliari c’è sempre stato anche questo: chi proviene da una estrazione sociale che non sia operaia o comunque di periferia, si è sempre immischiato con quegli ambienti lì. Anche gente di un certo livello, cresciuto in quartieri come Quartiere Europeo, Genneruxi, Bonaria e così via. È sempre successa questa dinamica. Diciamo che Cagliari offre in piccolo certe dinamiche che in altre città sono in grande: oggi ad esempio ci sono i figli di immigrati che fanno gruppo con persone della stessa etnia o persone di etnia diversa, e lì vedi spesso e volentieri che c’è anche qualche italiano dentro. Cagliari è sempre stata meticcia nella sua storia. Da questo punto di vista per uno scrittore di noir è molto interessante, mi danno del materiale su cui scrivere.

Nel tuo romanzo è evidente l’impronta di Sergio Atzeni, che per primo ha raccontato i quartieri più periferici di Cagliari.

Sì, Atzeni è il primo che parla di una Cagliari di tipo urbano con tutte le problematiche che una città del periodo post-bellico ha sviluppato dal punto di vista criminale o micro-criminale. È stato il primo a presentare questo tipo di storie: chi si avvicina a questo genere in Sardegna non può non averlo letto. Penso a ‘Bellas Mariposas’, spaccato di vita di San Michele dove lui è cresciuto in quegli anni lì. Punto secondo, c’è la lingua: una sorta di rap urbano con innesti di sardo cagliaritano. È uno spartiacque fondamentale, c’è tutta una narrativa, che non è noir, ma altri testi mi hanno insegnato molto. Ho capito come dovevo affrontare la mia scrittura. Dallo slang alla narrazione al presente, il discorso diretto libero e indiretto libero. Tutto questo l’ho preso da lui, e chi è venuto dopo di lui, come Francesco Abate e tanti altri.

Sì diciamo però che sono ancora pochi quelli che si soffermano sulla città di oggi.

Credo che a un certo punto si sia creato un vuoto, perché è esploso il fenomeno Michela Murgia, quindi la narrativa sarda si è concentrata sulla Sardegna mistica, arcaica, mentre quella urbana, i rioni e il resto si è un po’ perso, con tutte le sue problematiche. Ma in realtà c’è ancora un mondo da raccontare. Molto spesso se si parla di vecchi criminali, si arriva a farsi grasse risate, dove gli stessi raccontano queste storie con un’aura un po’ grottesca.

Tu sei uno scrittore un po’ sui generis: sei un palestrato, giri con felpa e scarpe da tennis, non ti piacciono molto giacca e cravatta.

C’è una tendenza popolare che lo scrittore sta nella casetta al buio a scrivere. Ognuno ha il suo approccio che si riflette nella scrittura. Non sono un amante dei salotti, frequento moltissimo le librerie, gli scrittori dovrebbero frequentare più le librerie che altro. Non mi piacciono le cose troppo ‘chiccose’. Non sono uno che frequenta molto altri scrittori, sono un po’ per i fatti miei. La mia vita si riduce alla palestra, e al mio gruppo di amici, sono uno che sta molto in strada. La mia narrativa nasce in strada, dove altro potrei stare per cercare le mie storie? Certo, non prendo parte a certe dinamiche in prima persona, ma tutto mi è funzionale alla mia scrittura, che voglio che sia il più iperrealistica possibile, quindi devo stare lì dove le cose che racconto ci sono veramente. Penso che noi scrittori non siamo dei chirurghi che operano le persone al cuore, siamo persone appassionate di scrittura e lettura, non facciamo cose straordinarie, scriviamo storie. Mi sento una persona comune con un mestiere comune, non l’ho mai visto come un mestiere che ti eleva nella scala sociale. È un dono, una capacità.

La scrittura ha molto a che fare con la musicalità, il ritmo e il suono delle parole. Che rapporto hai con la musica?

La musicalità è fondamentale. Il mio libro è denso di musica, un’altra delle componenti fondamentali della mia vita. Sono cresciuto ascoltando ogni genere musicale, ho una conoscenza molto variegata. Nel libro si parla di un contesto periferico, rionale, dove i protagonisti sono ragazzini di vent’anni, perciò ho dovuto esplorare la musica trap, autori come Capoplaza. Diciamo che non rientra nelle mie corde. Io ascolto molta musica hip hop, rap. La grande differenza tra questa e la trap è che quest’ultima è una mera esaltazione di situazioni criminali, molto fine a se stessa: non c’è un messaggio di riscatto e consapevolezza. Nella musica rap old school, si parla di quei temi e si vive quelle dinamiche perché si vuole evaderle. È quella che ascolta Davide in ‘Via Libera’, consapevole di sé e della sua emarginazione. A un certo punto lui dice che non ascolta trap, ma rap old school perché si riconosce più in quei temi. Tra gli altri, ho citato Cool Caddish nel libro, ho voluto fare un tributo a lui. La mia scrittura cerco di renderla musicale, lavoro moltissimo sulla lingua, sul ritmo. Sono molto certosino, mi piace che sia musicale, la curo maniacalmente.

Cosa stai scrivendo ora? Ci puoi anticipare qualcosa?

Non posso dire molto, ma posso dire che il nuovo romanzo uscirà quest’anno prima di Natale. Siamo sempre a Cagliari, sempre nel noir, ma questa volta racconto le vite di giovani trentenni alle prese con i problemi dei trentenni.

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