A soli ventitré anni Piergiorgio Pulixi, classe 1982, ha scritto il suo primo romanzo “Perdas de fogu” ambientato a Cagliari, sua città natale. Lo ha fatto insieme al collettivo di scrittura Sabot, creato dal “maestro” Massimo Carlotto, tra i massimi autori del genere noir in Italia.

“Da quel primo romanzo ho provato a crearmi un percorso mio personale scrivendo noir, thriller, gialli. Mi piace esplorare un po’ tutte le sfumature del genere”, dice l’autore cagliaritano. Così dopo un anno a Padova da “apprendista” ha iniziato a viaggiare, stabilendosi per cinque anni in Inghilterra, poi in Francia, e infine a Milano, dove vive stabilmente, facendo di tanto in tanto una tappa nel capoluogo sardo, sempre vicino al mare.

Nel frattempo ha scritto diciannove romanzi, alcuni dei quali fanno parte delle tre serie che Pulixi vuole portare avanti fino in fondo: la prima sull’ispettore Biagio Mazzeo, iniziata nel 2012 con “Una brutta storia”; la seconda de “I canti del male”, che ha preso forma nel 2015 con “I canti degli innocenti”, con cui ha vinto anche il Premio Fedeli; la terza su Giulia Riva e Franco Caruso, fresca di pubblicazione con “Per mia colpa” dato alle stampe un anno fa.

Tra gli altri riconoscimenti, Pulixi ha conquistato per due volte il Premio Scerbanenco con “Lo stupore della notte” (2018) da parte dei lettori, e “L’isola delle anime” (2019), questa volta da parte della giuria. Lo scorso anno, poi, ha vinto per la seconda volta il Premio Fedeli con “Un colpo al cuore”.

I suoi libri sono in corso di traduzione in Francia, in Spagna e negli Stati Uniti.

Sei stato definito da Maurizio De Giovanni “una voce fortissima nel romanzo nero italiano”. Come ti sei vicinato a questo genere? Cos’è che ti ha attratto? 

Mi sono avvicinato con la scuola di scrittura, perché prima ero un amante del giallo ma non era un genere che conoscevo così a fondo. Lavorando con Carlotto, che è un grandissimo autore di noir, ho capito cosa c’è dietro la struttura di un romanzo giallo e ho imparato a costruirne uno affidarmi a tutte le meccaniche e le dinamiche più interne. Più lo facevo e più mi appassionavo. E da quel momento continuo a scrivere qualcosa che mi piace leggere.

Oggi il genere giallo è il secondo più letto in Italia. Perché secondo te? 

Credo che sia perché è un genere molto consolatorio. Da una parte si presta di più alla serialità, quindi i lettori incontrano romanzo dopo romanzo gli stessi personaggi che diventano quasi degli amici, così come le stesse ambientazioni e le stesse consuetudini. È una lettura che diventa familiare. Inoltre è consolatorio il fatto che il genere fa sì che il bene vinca sempre, quindi rinsalda nei lettori la sicurezza che attraverso la razionalità l’investigatore può fare ordine nel caos. Cosa che non avviene nel noir, che ha una visione più pessimista, e quindi anche più verosimile: racconta come il male, a volte, la faccia franca. Molto spesso nel noir il racconto non è affidato all’investigatore, ma agli occhi del criminale, quindi è proprio una prospettiva diversa. Se il giallo risponde alla domanda ‘chi è stato’, il noir risponde alla domanda ‘perché l’ha fatto’, è molto più psicologico, scava più a fondo nella psiche umana.

Al primo posto invece c’è il romanzo d’amore. C’è una relazione tra i due generi? 

C’è una relazione nel senso che alcuni autori e alcune autrici stanno portando avanti una sorta di ibridazione di entrambi i generi: può capitare di trovare un romanzo sentimentale che al suo interno abbia una linea di mistero, di giallo, e viceversa un romanzo giallo che abbia una forte componente sentimentale. È una tendenza del mercato abbastanza nuova. Più in generale possiamo notare che sin dall’Ottocento sono due generi molto popolari, perché fanno proprie le esigenze dei lettori: quella di sognare nei romanzi sentimentali, e quella di intrattenersi e provare a risolvere dei misteri. Il genere giallo, tra l’altro di buono ha che il lettore diventa parte attiva del caso, è come se provasse a risolvere il caso insieme agli investigatori, addirittura cercando di anticiparli.

Nei tuoi romanzi racconti due Sardegne, se così si può dire: una cittadina e più “al passo coi tempi”, l’altra più ancestrale. Ma esistono davvero ancora oggi? 

Diciamo che nel romanzo ho accentuato questo aspetto per esigenze di trama. Credo che ciò che esista oggi è, come sempre è esista, una scissione dei sardi tra un afflato di modernità e allo stesso tempo un ancorarsi ancora alle tradizioni, alla terra. È un qualcosa che inevitabilmente tocca tutti i sardi, soprattutto chi vive nelle zone più interne della Barbagia, dove lì il rapporto con la natura è ancora più diverso rispetto che altrove. Io credo che alla fine le suggestioni che questa terra suscita nei sardi – e non solo – siano essenzialmente legati alla natura, che è una natura molto antica, incontaminata. E questo ti porta a maturare un rapporto diverso, che chi arriva dai centri urbani e dalle metropoli non avverte più. Tutto questo non riesci a razionalizzarlo subito e quindi ti porta a pensare a dei misteri, alla spiritualità.

Quali sono i tratti del romanzo noir che riesci a ritrovare in Sardegna? 

È un po’ come cercare di avere un continuo gioco tra luci e ombre. Quello che mi colpisce della Sardegna è che è solo apparentemente un paradiso: da una parte c’è la luminosità dell’Isola, la mediterraneità, la foto da cartolina, mentre dall’altra c’è l’oscurità, che è rappresentata dai delitti, dal crimine. Giocare su questi due aspetti è molto interessante per chi scrive noir.

Tu però sei un cagliaritano doc. C’è un posto in città dove ti senti più ispirato a scrivere? 

Allora, in realtà difficilmente riesco a scrivere in luoghi che non siano casa mia. Invidio tantissimo i miei colleghi e le mie colleghe che invece riescono a scrivere dappertutto: sugli aerei, nei treni, nei bar. Però ho la consuetudine da sempre di iniziare le mie storie in Sardegna. È quasi un rito, forse anche scaramantico: è il mio grandissimo rapporto, molto personale, con il mare, che è un po’ il mio baricentro esistenziale. Quindi sicuramente quando torno mi faccio una passeggiata al Poetto, oppure sulle spiagge di Muravera e Costa Rei, che mi aiutano a creare proprio le prime suggestioni della storia. Questo di sicuro.

Un’altra particolarità delle tue “serie” di romanzi è che sono ambientati sempre in posti diversi, cosa che non avviene ad esempio in Andrea Camilleri, tra gli autori che hanno affermato questo genere in Italia. Perché questa scelta? 

Mettiamola così, è un modo per cercare di dare ai miei lettori sempre qualcosa di nuovo, che sia una suggestione letteraria, quindi una sfumatura letteraria diversa, che sia una ambientazione nuova o dei personaggi nuovi che entrano ed escono dalle mie serie. È più come se fosse una sorta di universo letterario più che la serie canonica alla Montalbano o alla Maigret. Questo mi permette di saltare e variare diversi elementi del romanzo e mi dà molta energia, mi impedisce di adagiarmi un po’ sulle consuetudini. È come se fossi sempre sbilanciato, come se dovessi ogni volta mettermi in gioco e misurarmi. E se io sono in gioco, allora riesco a dare il massimo di me stesso e trarre il massimo dalla scrittura. Quello che mi spaventa di più è annoiare i lettori: dare per due volte di fila la stessa storia.

Con “L’isola delle anime” (2019) hanno fatto la loro prima comparsa due donne ispettrici, protagoniste del romanzo. Quando ti sei reso conto che mancavano delle figure femminili di questo tipo? Che apporto danno al romanzo? 

È un discorso lungo, perché in realtà il genere giallo da sempre è stato un genere ‘maschiocentrico’, era difficile negli anni passati trovare delle donne che fossero protagoniste dei romanzi, a meno che non fossero scritti da donne che provavano a rompere questo tabù. Il problema è che secondo me la realtà stava andando in una direzione completamente opposta rispetto a quella che stavano perseguendo i gialli. Pensa al mondo della giustizia oggi che, fino a questo nuovo governo, nei posti apicali era in mano alle donne. Mi sembrava anche giusto raccontare un’Italia più simile e più vera, quindi di come le donne fanno bene questo mestiere, spesso hanno una marcia in più, spesso l’intuito femminile rappresenta una risorsa. Mi interessava molto raccontare anche l’altra parte del cielo, la trovavo qualcosa di più inedito, che potesse dare uno sguardo diverso.

Ci sono degli autori sardi che ti hanno ispirato particolarmente nella tua scrittura?

Adoro tantissimi autori e autrici sardi che hanno dato grande nobiltà alla nostra tradizione letteraria. Penso a Giorgio Todde, Sergio Atzeni, Giuseppe Dessì, Sebastiano Satta, Grazia Deledda, Marcello Fois, sono veramente dei maestri. Li ho tutti studiati e ho cercato di omaggiarli, soprattutto ne ‘L’isola delle anime’, che è proprio intriso di Sardegna. E amo molto anche rileggerli. Poi le ispirazioni sono innumerevoli, adoro tanti scrittori italiani: da Carlotto a Lucarelli, De Giovanni, De Cataldo. Ma così come mi piacciono molto anche i colleghi stranieri come Michael Connelly, Ian Rankin, John Wisdom, Tana French – che è tra le mie scrittrici preferite. Sono innumerevoli, ed è anche necessario leggere molto per stare un po’ al passo con le scritture degli altri colleghi e colleghe.

Ultima domanda. Sei una persona molto pacata e serena, mentre nei tuoi romanzi ti scateni. Da dove vien fuori questa verve?

Guarda io dico sempre che i giallisti sono come i batteristi delle rock band. Se tu guardi un batterista, sembra sempre la persona più tranquilla del gruppo, perché ‘pesta’ tutti i giorni sulla batteria, quindi si sfoga e torna ad essere una persona totalmente risolta, depurata da tutte le varie ansie e stress. I giallisti sono identici, perché ‘ammazzano’ tante di quelle persone nei romanzi, che esorcizzano in qualche modo, a livello psicologico, tutte le varie ansie e stress. Come dice anche Daniel Pennac: se vuoi liberarti dal rancore, scrivi un giallo.

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