Nato a Genova nel ‘76, anche se il cuore è bellunese. Riccardo Gazzaniga di mestiere fa il poliziotto, ma anche lo scrittore. Una sorta di ibrido a due teste, si potrebbe dire, che nelle cuffie ascolta hair metal, legge Stephen King e tifa Juve. Poi molla tutto e indossa la divisa, quella da ispettore.

La sua grande passione per raccontare storie – ha iniziato a scrivere racconti all’età di diciotto anni – lo ha portato a scrivere due “pezzi da novanta”: il suo primo romanzo “A viso coperto” (Einaudi, 2013) con cui ha vinto il Premio Calvino e il Premio Massarosa, e “Non devi dirlo a nessuno” (Rizzoli, 2021) oltre a una lunga serie di racconti sparsi in tante raccolte di storie condivise in giro per il web.

Un suo pezzo sulle Olimpiadi del 1968 e l’atleta Peter Norman è stato tradotto in una decina di lingue e letto da milioni di persone. Da quel pezzo poi è nato l’embrione della raccolta “Abbiamo toccato le stelle” (Rizzoli, 2018), vincitrice dei premi Memo Geremia e Bruno Roghi come miglior opera per ragazzi a tema sportivo.

Dopo la tragedia del crollo del ponte Morandi a Genova partecipa, insieme ad altri autori, all’antologia benefica collettiva “Il ponte: un’antologia” (Il Canneto, 2018) con il testo inedito “Il racconto che non ho” scritto insieme a Daniela Quartu. E sullo stesso tema nel 2019 esce il suo terzo romanzo, “Colpo su colpo”, edito ancora da Rizzoli, ambientato nel capoluogo ligure in seguito al tragico evento, con protagonista un’adolescente che pratica le savate e deve confrontarsi con i dissidi familiari e il violento bullismo scolastico dovuti alla sua omosessualità.

Nel settembre 2020 continua il percorso iniziato con “Abbiamo toccato le stelle” pubblicando “Come fiori che rompono l’asfalto – Venti storie di coraggio”, raccolta dedicata a uomini e donne che si sono opposti a regimi dittatoriali, discriminazioni, ingiustizie, pagando spesso con la vita.

Lo scorso settembre è uscito il suo quarto romanzo “In forma di essere umano” per la collana Nero Rizzoli, che ha presentato nella serata di mercoledì 2 novembre alla Fondazione di Sardegna, a Cagliari, in occasione del festival letterario diffuso Éntula.

Nel tuo ultimo romanzo racconti la storia incredibile del latitante nazista Adolf Eichmann. Ne parli come di una vera e propria “ossessione”. Da dove nasce?

È iniziata principalmente collegandola al fatto che volevo conoscere i dettagli di questa vicenda che viene raccontata come quella di un grigio burocrate dello Sterminio che metteva delle firme. In realtà è quella di un gerarca spietato incapace di fare eccezioni, un uomo terribile da moltissimi punti di vista, capace anche di reinventarsi fuggendo in Argentina. Narrativamente parlando è una vicenda molto rocambolesca in cui c’è una caccia all’uomo degna di una spy story. Tutte queste parti spesso sono state schiacciate dal concetto della ‘banalità del male’. Io cercavo di ridare, col passo del romanzo, una vitalità a una vicenda molto forte che permette di riflettere su come sia possibile che uomini ‘normali’ compiano cose mostruose.

Hai anticipato la mia domanda. Ti sei detto in disaccordo con la definizione di “banalità del male” di Hannah Arendt. Perché?

Diciamo che Hannah Arendt coniò questa definizione bellissima anche per dare struttura a una sua impostazione filosofica, però nel suo giudizio mancava la conoscenza di alcuni fatti che sono emersi dopo. In particolar modo le testimonianze che dipingono Eichmann come un uomo assolutamente non redento, incapace di ammettere larga colpa e mettere in discussione il proprio operato. Senza contare che probabilmente ci fu proprio un omicidio singolo ascrivibile direttamente a lui. La figura può essere banale intesa come di un uomo normale: non un sadico, un mostro o uno psicopatico. Però quello che fece fu molto spesso frutto di calcolo e di una precisa volontà. Non fu soltanto un grigio esecutore, ci mise molto del suo.

A proposito di questo, l’agente segreto israeliano Zvi Aharoni, eroe del romanzo, dirà: “Non servono vampiri, bastano gli uomini a fare cose mostruose”. Eppure la narrazione mediatica del “mostro” è ancora quella dominante oggi.

Tanti saggi si sono interrogati su questo argomento. Io credo che dipingere il male come mostruoso ci aiuta a renderlo alieno da noi, ovvero se io penso che a compiere certi atti siano persone mostruose, appunto, o malate, inclini a quella indole, allora metto al sicuro me e le persone a me care. Invece se io dico che anche noi, quindi anche l’uomo comune, in un sistema totalitario, può diventare un mostro, devo farmi delle domande su me stesso: come mi comporterei in certe situazioni? E questo è difficile.

La storia di Eichmann sembra lontanissima, ma in realtà la fascinazione per il nazismo, e il fascismo, sembrerebbe persistere ancora oggi. Penso al caso Predappio e alla nomina a viceministro delle Infrastrutture di Galeazzo Bignami, che per il suo addio al celibato indossò una divisa nera con una svastica.

In generale mi sembra di vedere una fascinazione per l’uomo forte, per il totalitarismo. Pensiamo anche alla fascinazione per Putin che è una figura che in Italia è stata trasversalmente e a lungo molto amata e molto difesa, elogiata, anche da rappresentanti politici, nonostante fosse una figura antidemocratica che stava già all’interno di un regime. Non parliamo poi di tutto quel che è fascismo e nazismo, che sono dittature che si son macchiate di milioni di morti. Sembra quasi che ci sia un’operazione di rimozione delle colpe, per tenere soltanto pochi singoli elementi che possono aiutare a mantenere insieme un castello di apparenze che in realtà nasconde crimini terribili. Pensiamo al grandissimo non detto delle guerre africane condotte dall’Italia in epoca fascista. Abbiamo condotto crimini terribili contro l’umanità, e questa è una parte della nostra Storia che non viene raccontata, c’è quasi una forma di censura come se non potesse appartenerci. E invece, purtroppo, ci è appartenuta a causa del fascismo.

Tu di mestiere fai il poliziotto, con una grossa responsabilità nel gestire la violenza. Un tema più che mai attuale se pensiamo agli scontri con gli studenti fuori dalla Sapienza di Roma o con gli ultras in seguito a Inter-Sampdoria. Come si gestisce la violenza?

La violenza è un qualcosa che non può essere incardinato in una gestione, perché di per se stessa è una rottura dell’ordine naturale delle cose, quindi non ha prevedibilità e può deflagrare in modi ed esiti assolutamente imprevedibili. Qualsiasi idea di una violenza contenibile o puramente estetica o rappresentativa di un’istanza rischia poi di esplodere in mano a chi la pratica. Mi viene in mente proprio il tifo violento, che ha questa componente di uso della violenza quasi rituale con un’esibizione della stessa violenza e della forza. Ma è una esibizione che poi molto spesso degenera in fenomeni che hanno conseguenze realmente terribili, non solo esteriori.

Per chiudere, riprendendo il romanzo, si può dire che la violenza è insita nell’essere umano?

Sì la violenza è una componente insita nell’essere umano, quindi non sempre è evitabile. A volte ci si trova a che fare con una violenza che esplode. La violenza non può mai essere uno strumento di rappresentazione dell’idea, perché di fronte alla violenza qualsiasi idea viene poi cancellata dall’atto violento.

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