(Foto credit: Mattia Zoppellaro)

La sala è piena, il pubblico è prevalentemente femminile, giovani e meno giovani. Lui non si fa aspettare troppo. Sul palchetto sistemato per la seconda giornata del Festival Pazza Idea, al Ghetto di Cagliari, sale lo scrittore romagnolo Marco Missiroli, volto noto del panorama letterario italiano per aver scardinato in un’ottica contemporanea temi come il rapporto conflittuale tra padri e figli, l’amore e il sesso, la precarietà del lavoro e delle relazioni.

All’età di 25 anni vince il Premio Campiello Opera prima con il suo romanzo d’esordio “Senza coda” (Fanucci, 2005). Da lì inizia un’escalation che lo porterà a conquistare dieci anni dopo il Super Mondello con il suo bestseller “Atti osceni in luogo privato” (Feltrinelli, 2015) e il Premio Strega Giovani con “Fedeltà” (Einaudi, 2019), romanzo che diventerà anche una serie Netflix, tra le più viste in Italia.

Oggi arriva dritto al punto: lascia da parte il verosimile per mostrarsi il più vero e autentico possibile. Con il suo ultimo romanzo “Avere tutto” (Einaudi, 2022), Missiroli si mette a nudo di fronte al suo pubblico. E lo fa con la sua lingua, il dialetto stretto di Rimini, sua città natale, quella che ha lasciato per un futuro migliore a Milano. Ma che oggi non è più un riparo. Deve tornare a casa, rimettere le cose passate in ordine, affrontare quel che aveva lasciato per anni da parte, perché troppo doloroso. Troppo vero.

“Cosa mi tengo, io, della mia vita? I soldi? La famiglia? La libertà? Qual è il mio vero ‘avere tutto’? Questa è una domanda che stana le persone”, dice Missiroli, che per la prima volta racconta del suo anno e mezzo di gioco d’azzardo e una domanda che risuona un po’ come un evergreen: si può, anzi si deve rischiare per avere tutto?

Il tuo nuovo romanzo si chiama “Avere tutto” ed è un recap dei tuoi quarant’anni di vita. Come sei arrivato fin qui?

Uno scrittore dopo un po’ arriva a un certo punto sa che deve tirare fuori gli scheletri nell’armadio. I miei sono due: la morte di mio padre, quindi l’assenza di un padre, e il gioco d’azzardo. La prima l’avevo toccata quasi sempre nei miei romanzi, la seconda mai. Ma non ho iniziato questo romanzo premeditatamente, nel mentre stavo scrivendo altri tre romanzi. Questo ha resistito, ed è il romanzo più autentico che ho scritto. Ho cercato di farlo generare dalla lingua, non dal plot, questa è la differenza. Non dal cosa succedesse ma dal come. Èun romanzo di piccoli gesti, di piccole cose.

Se da una parte l’avere tutto può renderci felici in qualche modo, d’altra parte c’è anche il rovescio della medaglia: il denaro che ci porta all’abisso. Tu come la vedi?

L’’Avere tutto’, il titolo, è incentrato sull’immaginarci di avere di più. Per molti è l’economia, i soldi, per altri è avere tutto quello che siamo noi comprese le nostri parti oscure. Ecco, questo per me è l’avere tutto. In questo romanzo ci sono tutte e due le anime: sia quella monetaria, delle ricchezze, sia quella dell’accettarci per quello che siamo. Io vedo che la parte del gioco d’azzardo diventa ludopatia molto facilmente. Ma il giocatore non gioca per la ludopatia in sé, per avere di più, ma gioca per esplorare, senza saperlo, tutta la parte estrema di sé: il rischio, l’azzardo, quanto coraggio hai, quanto può cambiarti la vita una vincita. Si gioca alle ipotesi, le possibilità. Ed è un romanzo proprio sulle possibilità che ognuno di noi si dà. Poi magari non si avverano, ma l’importante è darsele.

La fortuna è protagonista in questa nuova storia. Che rapporto hai con la fortuna?

Sono nato scaramantico, sono uno ritualizzante e ritualizzato. Non la invoco, non sono così pagano, piuttosto invoco la spiritualità. Però faccio sempre caso ai segni, magari quando devo fare qualcosa e piove, grandina, non la faccio più, mi blocco. Ho una sorta di fortuna pagana che mi guida nella natura e seguo quella.

Quando hai vinto il Campiello avevi 25 anni e portavi all’attenzione il rapporto conflittuale tra genitori e figli. Se dovessi riscrivere la stessa storia, come la racconteresti oggi?

Sì è proprio questo romanzo, che è anche incentrato sullo scontro tra la nuova e la vecchia generazione: tra i prudenti, che avevano potere d’acquisto, e noi che siamo selvaggi perché non abbiamo più niente. Abbiamo il precariato assoluto, per cui a volte la vecchia generazione impone delle leggi sulla nuova e a quel punto lì la nuova generazione non può giocare con le vecchie leggi perché noi siamo diversi. C’è una presunzione da parte della vecchia generazione di applicare la loro volontà, che non possono però essere applicate.

Le passioni sono un altro grande dilemma di questo romanzo, in una società da sempre abituata ad accettare il lavoro più sicuro, anche se non combacia con le proprie aspirazioni. Oggi si intravede una sorta di “ribellione” in questo senso. Pensi che riuscirà ad avere la meglio oppure si tornerà punto e a capo? 

Sì c’è qualcosa che sta cambiando. Credo però che la svolta sia solo momentanea e si tornerà all’approccio pre-pandemia, un approccio di passioni e volontà un po’ isteriche, ipertrofiche. Speriamo di no, che la crisi climatica ci faccia capire qualcosa, che si faccia anche metafora di quello che potremmo diventare noi. Non lo so, ho dei dubbi. L’essere umano è recalcitrante.

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