Rivoluzionari incompresi, i dark son sempre stati malvisti sia a destra che a sinistra, le prendevano da punk e skinhead, e negli anni sono stati confusi, male interpretati e misconosciuti un po’ da chiunque. Eppure, la subcultura giovanile nata a Londra alla fine degli anni Settanta e diffusasi nel resto d’Europa negli Ottanta presentava già i semi di quelle che sarebbero state le tematiche sociali dominanti del “nuovo secolo”: dalla parità di genere alla non violenza, fino alla difesa dell’ambiente e la creatività come aspetto fondamentale per la realizzazione di sé.

“Per fortuna le cose sono cambiate, e anche la persona vestita di nero intesa come portatrice di valori negativi è diventata quella capace di esaltare le qualità umane di persone che, apparentemente vivevano ai margini, ma erano dotate di grande cuore. Penso a ‘Edward mani di forbice’ di Tim Burton, conosciuto da tutti, per non parlare del successo che ha avuto ‘Il corvo’ con Brandon Lee, tra gli altri”, dice Giacomo Pisano, classe 1975, giornalista, scrittore, esperto di comunicazione, tra gli esponenti più conosciuti della subcultura dark in Sardegna e non solo. Un mondo che gli appartiene fin da quando aveva solo 11 anni, che ha assorbito in famiglia e trasposto in maniera via via più personale, cucita – letteralmente parlando – su misura per lui.

È stato curatore per oltre dieci anni nei Centri comunali d’arte e cultura di Cagliari, dove ha anche gestito la galleria MK come direttore artistico. Oggi lavora alla Comunicazione della Regione Sardegna, è co-fondatore di Nemesis Magazine e presidente dell’associazione culturale Terra Altra.

Questa estate è arrivato in libreria il suo “L’onda nera. 40 anni di (contro)cultura dark” (Milieu, 2022), in cui racconta da vicino tutto quel che c’era da dire del movimento post-punk che è riuscito a darsi un titolo grazie a nomi come The Cure, Bauhaus e Joy Division, che all’improvviso hanno iniziato a cavalcare i palchi internazionali più importanti in tenuta nera, accapigliature scomposte, labbra rosse e trucco sbavato, in un momento in cui i diktat culturali volevano ammansire il grande pubblico con l’estetica della perfezione, dei colori e sorrisi a tutti i costi, delle curve in bella mostra e i machi in primo piano. Il movimento dark voleva di più, e oggi, a guardare con attenzione, tanti dei suoi simboli dettano look e filosofie nei più svariati ambiti.

Partiamo da te. Come ti sei avvicinato alla subcultura dark?

Mi sono avvicinato da giovanissimo, nel 1986, avevo solo 11 anni. Un po’ perché quel tipo di musica e di immagini nella mia famiglia materna erano presenti, avevo degli zii che vestivano di nero, ascoltavano i Cure, Bauhaus e Joy Division. Quindi per me erano delle immagini abbastanza usuali. Allo stesso tempo, mentre guardavo quel fantastico programma che era DJ Tv, era capitato che passassero sia un video dei Cure sia di Nina Hagen, e per me quello è stato un po’ uno spartiacque. Perché vedere che si poteva fare della musica orecchiabile, piacevole, non necessariamente sperimentale, promuovendo un’immagine forte e idee di bellezza che erano diversi da quelle dominanti dell’epoca, mi aveva colpito moltissimo. Avevo letto in quel mondo una grande possibilità di essere creativi, con la propria immagine, con la musica, e non avendo mai amato le cose preconfezionate e stereotipate capii subito che c’ero vicino a quell’ambiente.

Perché hai sentito la necessità di scrivere questo libro?

L’ho scritto per sfatare questo luogo comune che accompagna il vestirsi di nero con la depressione o l’essere cupi. Non è assolutamente così, per me è sempre stato sinonimo di creatività, di voglia di fare, di divertirsi, di comunicare. Fin da quando ero adolescente andavo nei mercatini a comprare dei vestiti che potessero addirsi al look che stavo cercando, oppure li prendevo “in prestito” dall’armadio di mia nonna. Insomma cercavo di personalizzare il più possibile la mia estetica, alle volte devo ammettere con risultati terrificanti. È stato un percorso per tappe che mi ha portato a essere quel che sono oggi.

Stando sulla tua famiglia. In Sardegna, a livello estetico e più in generale culturale, c’erano già degli elementi dark prima che questo diventasse un vero e proprio movimento?

Assolutamente sì, il dark è magia, è mistero, e la Sardegna è piena di tradizioni esattamente come l’Europa del nord. Si pensa sempre che le fate e le streghe appartengano più a quel mondo, penso ai Fratelli Grimm, ma noi non siamo secondi a nessuno. Quest’isola è ricca di personaggi, racconti e leggende, anche dai tratti molto oscuri, che riprendono questo immaginario così complesso. Oltre alla Accabadora, uno dei personaggi più inquietanti è la Coga, che è una sorta di strega vampiro che si nutre del sangue dei bambini nelle culle pungendoli nella fontanella. È una cosa terribile. Poi abbiamo tutta quella tradizione di streghe nell’acqua che tirano giù quelli che si specchiano e li annegano. C’è davvero un mondo. Ho dedicato un capitolo intero ai riferimenti culturali della subcultura dark perché questo sentimento verso il buio, il macabro, nell’uomo è sempre esistito, a partire dalla Grecia fino ai giorni nostri. Il poeta Schelley rende molto bene questo sentimento definendolo “la tempestosa bellezza dell’orrore”. È il cercare anche negli aspetti negativi qualcosa di bello.

La subcultura dark ha da subito appoggiato le rivendicazioni femministe: negli anni ’80 le donne indossavano abiti maschili, poi più avanti son diventate sempre più provocatorie. Tu come hai vissuto questa fase di transizione?

Uno degli aspetti che mi era piaciuto di più di quel mondo era il fatto che fosse una cultura che scardinava i ruoli di genere preordinati. Le donne avevano una assoluta presenza attiva nella scena, con le band, dettando immagini e concetti. Allo stesso tempo era concesso agli uomini di mostrare il loro lato più sensibile. Il dark ha sempre allontanato stereotipi come il machismo, la donna indifesa e così via. Non appartengono proprio a questo mondo. C’è una grande attenzione alla parità di genere e alle diversità. Penso anche alle disabilità: i festival a cui spesso vado in Germania o in Olanda hanno una grandissima attenzione alle persone con disabilità. Cosa che non fanno magari cantanti o band più mainstream. E questo non è un dettaglio.

Tra gli altri principi cardine c’è anche quello della non violenza, rispetto magari ad altri gruppi come i punk o gli skinhead.

Sì il dark interiorizza il suo diniego verso certi comportamenti sociali e li incanala in prodotti artistici, letterari, musicali, teatrali. Agli inizi fu una vera e propria battaglia, che fu mal vista anche dagli stessi punk, perché vedevano nel dark un’attenzione troppo edonistica, erano considerati “troppo calmi”, e anche la sinistra italiana non vide benissimo questi nero vestiti perché associati a gruppi con simpatie fasciste. Cosa che assolutamente non rispecchiava la realtà. Questa subcultura nasce su tutt’altri ideali come la condivisione e il pacifismo. Tantissimi all’interno della scena sono vegetariani o vegani, sempre attenti ai temi ambientali. Una delle cose che mi colpisce sempre, infatti, è che quando frequento questi festival non resta nemmeno un pezzo di carta per terra alla fine dell’evento. Quando penso a una qualsiasi partita allo stadio, ad esempio, avviene il contrario.

Stando sui festival. Come hai preso la nuova normativa cosiddetta “anti rave party”?

Mi fa ridere. Ho dedicato un intero capitolo nel libro a spiegare come tra i primi avventori dei rave party ci fossero proprio i dark. Perché in comune abbiamo il gusto per i luoghi abbandonati, per la musica con basi molto potenti e molto oscure. E poi per il ballo, che è sempre stata una componente fondamentale nella cultura dark e ovviamente anche nei rave. Tra l’altro ho partecipato anche come dj a diversi eventi di questo tipo e sinceramente non posso che vedere in questa misura, una delle tante misure antisociali – come quella di non stendere i panni, non legare le biciclette ai pali o le panchine anti clochard – che si inserisce in una linea di pensiero lontana anni luce da una concezione empatica del mondo e delle persone come la mia. I rave sono dei microcosmi all’interno dei quali si muovono designer, tecnici delle luci, produttori, dj, artisti. C’è tantissima professionalità che non viene riconosciuta. Il problema è che son sempre stati bollati come dei luoghi fuori legge dove la gente va lì per prendere le droghe. Come al solito si punta il dito sui posti e non sul problema: come mai la gente prende le droghe? Perché viviamo in un sistema malato, in una società che ci rende infelici e ci spinge a cercare delle “scappatoie”. Io personalmente non ho mai fatto uso di droghe, ma non le ho viste soltanto nei rave. Parlerei non tanto di punizione, ma di risanamento degli ambienti sociali.

La subcultura dark è fatta anche di tanta filosofia, che veniva citata nelle canzoni delle vostre band di riferimento: si va da Camus a Sartre, ma anche autori come Poe e Kafka. Tu cosa hai letto?

Ce ne sono tantissimi. Io consumo una quantità di libri notevole e su tanti argomenti diversi. Per me è sicuramente stato fondamentale Baudelaire. Quando ero ragazzino leggerlo mi ha sicuramente aperto la mente su tutta una serie di possibilità di ragionamento del pensiero umano che non trovi quando vai a scuola, dove la letteratura che ti propongono è abbastanza standard. Si fa poca attenzione a pensieri alternativi: oltre a Baudelaire, penso a Verlaine, Rimbaud, ma anche Edgar Allan Poe, Corazzini e Gozzano. Lo stesso Leopardi che ha fatto della malinconia una poetica, viene trattato in maniera tutto sommato molto nozionistica. E poi, avendo frequentato il liceo classico, è stata sicuramente la letteratura greca, e dei lirici in particolare, a farmi riflettere molto sulla complessità della mente umana. Da lì ho iniziato a specializzare le mie letture e trovare un supporto filosofico, letterario, teatrale e cinematografico in quelli che erano i miei gusti, anche musicali ed estetici.

Tu vivi a Cagliari ormai da anni. Come ti trovi da esponente di punta del gruppo dark locale?

Dopo un paio d’anni in cui viaggiavo tra la Sardegna e Londra, ho scelto di vivere qui perché ho visto in Cagliari sempre tanto potenziale. E nonostante ci fossero band e menti legate a questo tipo di cultura, non c’era un appuntamento fisso, non c’era il senso di coesione. Specialmente passati gli anni Ottanta, con l’onda legata anche alla moda, la gente si è chiusa nelle proprie case. Quindi ho deciso di farlo io. Da anni ormai facciamo serate, presentazioni di libri, incontri per confrontarci su tantissimi temi, per radunare le persone, dare spazio sia ai più giovani con un’esperienza di gruppo che non hanno mai vissuto, sia a quelli della prima ora che magari hanno ancora qualcosa da dire a livello creativo e artistico. Da questo punto di vista Cagliari è una città dove tutto sommato si sta bene, io non ho mai avuto problemi, neanche in ambito lavorativo dove son stato sempre a contatto col pubblico. Ora ad esempio lavoro alla Presidenza della Regione, con i miei capelli viola e i miei piercing, senza alcuna difficoltà. Ho trovato sempre degli ambienti, anche più formali, fatti da persone intelligenti e capaci. Io ho sempre vissuto liberamente i miei gusti e questo mi ha sempre ripagato. Anche quando abbiamo organizzato diversi eventi, ho avuto l’occasione di confrontarmi con persone che magari non facevano parte della subcultura dark ma partecipavano volentieri. Perché quando vai a trattare dei valori forti, si esce da quella nicchia.

Il Bastione Saint Remy è stata la vostra roccaforte per anni insieme ai gruppi punk e skinhead. Come hai vissuto quegli anni? Com’è la situazione oggi?

Gli skinhead portavano avanti l’opposto che poteva interessare a noi o ai punk, quindi il machismo, il fascismo e il razzismo. Cosa che non ci appartiene in nessun modo. C’era invece una corrispondenza coi punk, coi metallari e coi rockabilly. Siamo sempre andati d’accordo e infatti loro frequentano anche i nostri eventi. Quando eravamo ragazzini si stava in piazza Repubblica e poi si saliva al Bastione dove si facevano anche i mercatini. Era un modo per confrontarci, ci scambiavamo musica, libri, vestiti. Era un vero momento di condivisione. Oggi non esiste più quel tipo di vita, ma non solo per noi, per tutti. Se guardi anche alle generazioni più giovani, non c’è più quel fenomeno di aggregazione da piazza. Ora ci ritroviamo nel nostro locale, dove organizziamo perlopiù serate notturne, sia con musica live sia da discoteca per ballare.

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