(Foto credit: Marina Café Noir)

Barrøy è una delle tante isolette a sud delle Lofoten, in Norvegia. Nei primi decenni del Novecento ci abita una sola famiglia, che prende il nome dell’isola e in cui convivono ben tre generazioni. È qui che si possono ancora scorgere lunghi silenzi e freddi orizzonti ed è qui che cresce Ingrid, ultima nata di una stirpe abituata a una vita poco più che di sussistenza, che segue una regola ben precisa: mai avere paura del mare in tempesta, perché un’isola non affonda mai, “è salda ed eterna”.

Roy Jacobsen è uno dei più influenti e apprezzati scrittori norvegesi contemporanei. Per la prima volta è stato tradotto in Italia con “Gli invisibili” (Iperborea, 2022), che ha presentato nella serata di giovedì 15 dicembre al festival Marina Café Noir, al Teatro Nanni Loy di Cagliari. La saga della famiglia Barrøy, in lotta per la sopravvivenza in un mondo in piena trasformazione, è stata paragonata ai “Malavoglia” di Verga e ha conquistato il pubblico internazionale, arrivando tra i finalisti dell’International Booker Prize nel 2017.

Ma l’autore norvegese era ben noto già da tempo. Nel 1989 ha vinto il prestigioso Premio della critica norvegese e i suoi romanzi “Seierherrene” (“I vincitori” nella traduzione italiana) e “Frost” sono stati nominati per il Premio del Consiglio nordico.

Oggi presenta il primo libro della saga sui Barrøy. Chi sono gli “invisibili” di Roy Jacobsen?

La protagonista di questo romanzo, Ingrid, è una giovane donna che vive su un’isola della Norvegia, con un carattere molto forte. Questo perché storicamente le donne del nord dovevano essere forti per sopravvivere. È puro darwinismo. Il personaggio riprende molti tratti di mia madre, mia moglie, mia figlia, ma anche persone che vivono in questa costa, dove sono nato. Ogni estate la trascorrevo su questa isola, dove mia madre è cresciuta.

Nel romanzo scrive “un’isola trattiene quello che ha, con tutte le sue forze”. È quel che ha fatto anche lei, tornando alle sue origini.

Sì è stato come arrivare da un sobborgo di Oslo, in cui viveva la classe operaia civilizzata, all’età della pietra. Non avevano niente, neanche l’acqua era potabile, il che è molto strano perché piove sempre. Dopo aver studiato matematica per un anno all’università ho scoperto che la mia famiglia era una famiglia di pescatori che ha vissuto per secoli sulla costa. Così ho voluto investigare, scoprire cos’è che facevano lì. Ho lasciato la capitale e sono partito nell’isola. Ne è nato questo ritratto di una cultura dimenticata. Nessuno ne aveva scritto prima, nonostante queste persone siano così importanti anche dal punto di vista economico. Da secoli pescano baccalà e lo esportano nel resto del mondo. È stato il più importante export che ha arricchito il nostro Paese, ma le persone che ci hanno lavorato sono rimaste povere, povere, povere. Io stesso ho lavorato come pescatore nelle baleniere, quindi conosco questo lavoro per esperienza.

I personaggi del suo romanzo lottano continuamente per mantenere le loro radici. È ancora possibile in un mondo globalizzato?

Fortunatamente c’è stato un grande cambiamento sulla costa. Ci sono ancora tante persone che vivono lì, perché è proprio una questione economica. Vogliono mantenere questo commercio che è fondamentale per noi. Siamo passati dall’essere uno dei Paesi più poveri dell’Europa a uno dei più ricchi. Ma molte delle persone che vivevano sull’isola si sono trasferite al centro del Paese. Abbiamo perso quella cultura in cambio della ricchezza. Ma questo è anche un romanzo sulla natura umana con le sue emozioni, i sentimenti, e il modo in cui agiamo e ci comportiamo. È una metafora della vita, perché si pensa spesso che un’isola sia qualcosa di esotico, di lontano da noi, ma in realtà le vite di questi personaggi riguardano ciascuno di noi.

È un po’ quel che succede anche in Sardegna. Era già stato qui?

No questa è la prima volta che vengo e sono molto contento perché è da molto che volevo visitarla. Sono un tipo molto romantico. E credo anche di essere il fan numero uno di Salvatore Satta, ho letto il suo romanzo “Il giorno del giudizio” quarant’anni fa, che è una vera opera d’arte. Così avevo deciso di visitare Nuoro. Dopo la traduzione francese è stato tradotto anche in norvegese nel ’78 ed è in quel momento che l’ho scoperto per la prima volta.

Il genere di questo romanzo però si rifà al realismo magico, come quello di Calvino e Marquez, tra gli altri. Da cosa deriva questa scelta?

Sì anche noi abbiamo una versione norvegese di questo genere. Come mi disse un mio collega tempo fa, penso che tutto il buon realismo sia magico. Ed è proprio vero. È una sorta di ironia che mette in luce tutte le ambiguità. Ci puoi mettere delle favole nel tuo realismo, renderlo più luminoso, puoi metterci più enfasi. E non manchi il fantastico, ovviamente. Ma il tratto principale che mi interessava era l’ambiguità. Non voglio essere un portavoce che dice come questo o quell’altro debba vivere. Voglio fare una fotografia di quel che succede. Sono tutte cose che trovi in Marquez e Calvino, ma in questo caso il tutto è stato scritto “in salsa norvegese”.

Il tema ambientale è molto forte in questo romanzo. La pesca intensiva è stata la salvezza di quelle famiglie che vivevano sulla costa, ma oggi potrebbe essere la loro rovina.

Sì siamo sul punto di estinguere tutto. Quando ero un pescatore, negli anni Settanta e Ottanta, abbiamo preso tutto. Non era rimasto più nulla ma ora abbiamo un regime di pesca molto duro. Anche i russi ci stanno ascoltando. E anche io ho iniziato a pescare in modo più sostenibile. Non sono preoccupato però che questo possa portarci alla rovina, perché c’è una logica di fondo: noi dipendiamo dalla pesca, quindi non la porteremo all’estinzione. Stiamo cercando di prendere tutto quel che possiamo senza distruggere il nostro ecosistema. Ancora oggi questa economia è la seconda in tutta la Norvegia. Abbiamo il gas, ma sta per finire, quindi cosa ci rimane? Il mare.

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