Tra i protagonisti della scena musicale indie cagliaritana, Alessandro Spedicati è stato per anni la voce dei Sikitikis, gruppo molto amato in città che ha conquistato intere generazioni che li aspettavano sotto il palco tra una sigaretta e un mojito.

Erano gli anni in cui ci si godeva i live a tu per tu con le band, senza smartphone di mezzo. Con “Tiffany”, “Tsunami”, “Voglio dormire con te”, tra le altre, si erano perfino aggiudicati un contratto con la casa discografica Caterina Caselli Sugar, sognando una vita fatta di musica.

Ma dopo tantissimi tour nell’Isola e in Italia, le collaborazioni con Mogol, Subsonica, Fandango Cinema, e il ruolo di opinionista su Rai 2 a “Quelli Che Il Calcio”, l’artista cagliaritano ha deciso di lasciare la sua comfort zone in città e andare a vivere in campagna. Il progetto “Una vita quasi country” è nato da poche settimane, il tempo di sistemarsi insieme alla sua famiglia e iniziare ad esplorare un mondo per anni gli è sembrato quasi irraggiungibile.

Hai lasciato Cagliari per il Sinis. Quando hai capito che era arrivato il momento di andar via?

Nel 2014. C’è stato un evento molto preciso che mi ha dato questa visione del futuro in cui ho iniziato a vedermi lontano dalla città. Era il mio compleanno, compivo 40 anni, e ho trascorso due settimane su una barca con degli amici. Dopo quelle giornate passate completamente scalzo, in mezzo alla natura, andando a letto alle otto di sera, svegliandomi alle cinque e mezza del mattino sul mare, lontano dai suoni artificiali, mi sono ritrovato a un distributore di benzina, con le scarpe ai piedi, e mi sono reso conto che viviamo una realtà completamente falsa e distorta. Quello che noi pensiamo che sia il sogno, e cioè di vivere in mezzo alla natura, in verità è la realtà. L’incubo è quello che ci siamo costruiti: vivere in mezzo al cemento.

Quindi non è stato difficile da cagliaritano doc lasciare la tua zona comfort?

No, al contrario. Questa scelta ha significato e significa ancora affrontare una marea di difficoltà, perché siamo profondamente legati alle abitudini. La zona comfort ce la siamo costruiti perché dobbiamo semplificare la nostra vita, ma in realtà facciamo l’esatto contrario: ci complichiamo la vita per semplificarla. Ad esempio ci riempiamo di apparecchiature elettroniche, poi quando queste hanno dei problemi non sappiamo come fare perché ci siamo adagiati su questi dispositivi elettronici. Oppure semplicemente ci abituiamo a camminare poco a piedi perché abbiamo la macchina, o ancora ci abituiamo a comprare le cose confezionate perché sono nel supermercato sotto casa. Quindi cambiare queste piccole abitudini, anche alimentari – io ad esempio son diventato vegetariano – ha comportato un’uscita dalla zona comfort.

Qual è stato il tuo primo impatto con la campagna?

Nel mio caso specifico ci sono due elementi che mi hanno colpito molto. Il primo è che in campagna si guarda più in alto, si guardano gli spazi e l’orizzonte, mentre in città si tende a guardare il marciapiede, in basso. E questa è una questione apparentemente banale, ma in realtà diventa una questione di postura: la campagna mi tiene la schiena più dritta, quindi è come se mi tenesse la vita più dritta. In secondo luogo, quando sono in campagna sento meno la necessità di beni materiali, desidero meno cose. Sento la necessità di avere meno oggetti, di comprare e accumulare cose che sono destinate a diventare spazzatura. Di questo mi sono reso conto quando ho fatto l’ultimo trasloco dalla città: insieme alla mia compagna, Annalisa, abbiamo riempito cinque Station Wagon piene di roba da portare all’ecocentro. E questa è una cosa che ci ha fatto a lungo riflettere sul concetto stesso di minimalismo come filosofia di vita, con il risultato di far sembrare tutto intorno a noi molto più ordinato e più pulito.

La vita fuori città può avere tanti aspetti positivi, ma resta il fatto che senza i mezzi di trasporto adeguati o la connessione Wi-Fi è più un azzardo che altro al giorno d’oggi.

Sì diciamo che il mio intento non è spingere le persone ad andare a vivere in campagna, ma di fare quel che desiderano, che son due cose diverse. Il mio desiderio era quello di muovermi verso la campagna. È vero che ci sono delle zone della Sardegna molto isolate. Io ho dovuto scegliere un compromesso. Il Sinis è una zona poco isolata, dove una connessione Internet è possibile, i telefoni prendono, i collegamenti stradali sono abbastanza agevoli. Al contempo ho una buona vicinanza sia con il mare sia con zone montuose, come il Montiferru. Ci ho messo tanto a trovare il posto giusto: è stato un po’ quando metti i filtri per cercare prodotti su Zalando. La fortuna è che ho un vero e proprio rapporto col Sinis, è un posto che mi ha sempre fatto sentire bene.

Si pensa sempre alla campagna come un luogo idillico, ma come mostri nei tuoi video c’è tantissimo inquinamento. Non c’è il rischio che un esodo dalla città possa incidere ancora di più rispetto a questo tema?

Quello che ho notato è che purtroppo sono le vecchie generazioni che non hanno questo tipo di sensibilità, di rispetto verso la natura. Questo piccolo “contro esodo” verso la campagna è l’inizio di un nuovo cuscinetto sociale fatto di persone che questa sensibilità invece ce l’hanno. Chi vive la campagna da quattro generazioni è abituato a usare la campagna a mo’ di sfruttamento, quindi ne fa un po’ quello che vuole. Ricordiamoci che la maggior parte dei rifiuti che finiscono in mare sono di persone che lavorano sul mare. Che poi è un paradosso, perché poi quei prodotti alla fine sono quelli che mangi. Noi invece apparteniamo a una generazione che è molto più attenta a queste tematiche, sia per questioni etiche sia perché è molto più bello camminare e uscire senza essere circondati da spazzatura. E questo vale anche per la città.

Dieci anni fa cantavi la tua “piccola rivoluzione”. Intanto volevo chiederti se ti manca il palco, e poi se sei riuscito a compierla questa rivoluzione.

Non mi manca per niente il palco, sono molto felice di non essere esposto perché è un grande stress. Voglio dedicarmi ad altro, alla mia famiglia. C’è da dire che la mia piccola rivoluzione, se non l’ho fatta, sto iniziando a farla. Anzi, probabilmente ho iniziato a farla allora, quando ho scelto di fare il musicista. Ovvero di tendere verso la libertà, verso delle dinamiche di vita che fossero regolate da me e non dalle pressioni sociali. Questo è molto difficile, anche fare musica comporta delle pressioni sociali così come quello che sto facendo adesso sul mio canale YouTube. Ma la spinta ideologica e di condivisione in cui credo mi fa portare anche il commento di quello che ha palesemente capito poco di quello che stai facendo.

Come la vedi oggi Cagliari? Cosa c’è che ti piace ancora e cosa invece non sopporti proprio più?

Quello che non sopporto di Cagliari è il concetto stesso di città, cioè la densità, la quantità di persone a metro quadro. Siamo troppi e tutti attaccati. Non mi piace che negli ultimi anni è diventata molto sporca e molto poco curata. Quello che mi piace sempre di Cagliari è la luce: è una città che ha una delle luci migliori al mondo. Sono stato in molti posti. C’è una bellissima luce anche in Australia, nel sud della Francia, in Spagna e in centro America, ma la qualità della luce di Cagliari, per essere un centro urbano, è veramente alta.

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