Non c’è alcuna fonte ufficiale che testimoni un viaggio di Dante Alighieri in Sardegna, ma, a leggere bene la Divina Commedia, il “sommo poeta” fiorentino conosceva molto bene l’Isola e i suoi abitanti.

“E a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche”, scriveva Dante a proposito dei sardi nel XXII Canto dell’Inferno. Un’attitudine che aveva colpito l’autore toscano a tal punto da dedicargli anche un verso ad hoc nel suo viaggio allegorico iniziato quel 25 marzo del 1300 e che oggi viene celebrato col Dantedì.

Sarà che il poeta fiorentino aveva studiato a menadito i grandi autori dell’epoca classica – Cicerone fra tutti -, sarà che aveva stretto un profondo legame d’amicizia con Nino Visconti detto Conte Ugolino, giudice di Gallura (1271-1298) e signore della terza parte orientale del cagliaritano (1275-1296), ma la Sardegna è ben presente nell’opera dantesca a differenza di quanto fecero i suoi contemporanei nei loro scritti.

I “barattieri” nel XXII Canto dell’Inferno

Sono due in particolare i riferimenti che Dante fa all’Isola. Il primo, come anticipato, si trova nel XXII Canto dell’Inferno, dove il poeta fiorentino colloca i cosiddetti “barattieri”, con cui si riferisce ai dannati della V Bolgia dell’VIII Cerchio dell’Inferno, colpevoli di aver usato le loro cariche pubbliche per arricchirsi attraverso la compravendita di provvedimenti, permessi e privilegi.

Per loro, Dante immagina un girone in cui vengono immersi nella pece bollente sotto lo sguardo attento dai Malebranche, demoni alati armati di bastoni uncinati con cui puniscono ogni barattiere che cerca di tornare in superficie.

Tra questi, ci sono anche due sardi: Michele Zanche e Frate Gomita. A raccontare la loro storia a Dante e Virgilio è Ciampolo di Navarra, anche lui dannato, che citerà la nota abitudine dei sardi di parlare in continuazione delle loro radici anche senza conoscersi tra loro.

Michele Zanche era siniscalco del re Enzo Hoenstaufen di Svevia. Ben presto ottenne la sua fiducia per amministrare il Giudicato di Torres o Logudori.

Nel frattempo, il re aveva sposato la giudicessa Adelasia di Torres, dalla quale poi divorziò. Secondo diverse fonti, Zanche ebbe una relazione amorosa con la donna, convinto com’era di poter conquistare in questo modo le sue grazie e raggiungere la carica di Giudice. Secondo altre fonti, invece, Zanche sposò Simona Doria, madre del re Enzo, e fu proprio da questa liaison che nacquero tre figli.

Ma a prescindere dalla veridicità di uno o dell’altro fatto, la “mossa” di Zanche nasce dal fatto che in Sardegna la reggenza del Giudicato non era basata sulla successione dinastica tra consanguinei, bensì dal consenso ottenuto dalla “Corona de Logu”, un’assemblea composta da un consiglio di nobili, dal popolo e dai vescovi.

Per questo motivo, Zanche approfittò del suo ruolo di prestigio per concedere favori e arricchirsi, così da ottenere un grande consenso dal popolo e accappararsi il posto più ambito.

Sua figlia sedicenne, Caterina, fu concessa in moglie a Branca Doria, membro della nota famiglia genovese, che si ingegnò per diventare signore di Logudoro innescando una vera e propria competizione col suocero: organizzò, infatti, un banchetto dove Zanche fu accerchiato da un gruppo di uomini, imprigionato e ucciso brutalmente.

Stessa sorte toccò a Frate Gomita, che ottenne da Nino Visconti l’autorità per governare la Gallura, dato che gli affari con Ugolino della Gherardesca lo portavano spesso lontano dalla Sardegna.

Gomita approfittò della sua assenza e si arricchì alle spese del Giudicato, donando a sua volta alte cariche in cambio di denaro o appropriandosene direttamente per togliersi qualche sfizio. Tra i gesti più clamorosi, ci fu anche la liberazione di alcuni prigionieri che lo stesso aizzò contro Visconti.

Per questo il Conte Ugolino tornò nell’Isola, lo fece catturare e uccidere.

Il Conte Ugolino e le donne della Barbagia

Più avanti, la Sardegna torna nuovamente nell’VIII e nel XXIII Canto del Purgatorio.

Nel primo, l’autore toscano racconta l’incontro con Nino Visconti, che chiama “Nin gentil”, figlio di Giovanni Visconti, capo dei Guelfi di Pisa, la cui figlia Giovanna, rimasta orfana del padre sarebbe stata privata dai Ghibellini di tutti i suoi beni, se non fosse stato per l’intervento diretto di Papa Bonifacio VIII. La moglie, Beatrice d’Este, rimasta vedova, ebbe un secondo matrimonio con Galeazzo Visconti, signore di Milano. E proprio per questo motivo, Nino Visconti darà di lei un giudizio molto severo.

Nel secondo, Dante s’incontra con il suo amico e parente Forese Donati di Firenze, che si confida col poeta fiorentino raccontandogli di sua moglie Nella e della licenziosità delle donne fiorentine e della Barbagia di Sardegna.

“[…] infatti la Barbagia della Sardegna ha donne molto più morigerate di quelle della Barbagia (Firenze) dove io la lasciai”, dice Donati al poeta fiorentino, in riferimento al fatto che sua moglie ormai vedova è rimasta a Firenze, dove si trovano donne ancor più scostumate delle donne barbaricine.

Il duro giudizio deriva da una diceria dell’epoca, secondo cui le donne della Barbagia erano solite andare in giro a seno “scoperto”. Ma ancora una volta, non vi è alcun fondamento in quest’affermazione, anzi.

Come spiega lo studioso Giovanni Mameli nella prefazione del testo “Dante e la Sardegna” il tutto è da ricondurre a “una più risentita vena del poeta, che presenta sotto una cattiva luce quasi tutti gli abitanti delle diverse regioni italiane. Alla base di tale condanna c’è il dilagare del peccato, nelle sue più svariate manifestazioni, che viene fatto risalire anche a una forma di governo corrotto e dissoluto”.

E in riferimento alle donne barbaricine precisa: “Uno dei motivi di tale scandalo sarebbe dovuto alla moda di tenere il seno scoperto. O meglio, le donne usavano delle camicie così scollate che era facile scorgere questa parte del loro corpo. Attraverso una lunga rassegna di testimonianze scritte, Ledda traccia un breve quadro della moda femminile delle zone interne della nostra Isola. Arriva a una conclusione sorprendente, alla fine: nei costumi delle donne sarde non vi è nulla di strano, i vestiti sono belli e pittoreschi e l’accusa di immoralità non ha nessun fondamento. Le testimonianze dimostrano invece una copertura del corpo, dove il viso addirittura in certe circostanze viene coperto da un velo”.

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