(Foto credit: Fabrizio Gatti)

Ha attraversato quattro volte il deserto del Sahara sui camion con centinaia di migranti in partenza dal Niger e diretti verso la Libia. Si è infiltrato in una organizzazione di trafficanti di uomini in nord Africa, diventando l’autista di uno dei gangster. È stato recuperato in mare, rinchiuso nel centro di detenzione sull’isola di Lampedusa come immigrato irregolare iracheno, con il finto nome di Bilal Ibrahim el Habib, che darà il titolo al suo romanzo best seller.

Fabrizio Gatti, formatosi da giovanissimo al Giornale di Indro Montanelli per poi approdare al Corriere e L’Espresso, è un professionista del giornalismo sotto copertura, noto per le sue inchieste da infiltrato sulle rotte dell’immigrazione irregolare dall’Africa all’Europa, sul caporalato nell’agricoltura e nell’edilizia.

I suoi reportage son stati tradotti in tutto il mondo e gli son valsi importanti riconoscimenti quali il Premio Ryszard Kapuściński, il Premio John Fante alla carriera, il Premio letterario Tiziano Terzani e l’European Union Journalist Award.

Nel suo ultimo libro “Nato sul confine” (Rizzoli, 2023), presentato a Cagliari in occasione del Festival di letteratura per ragazzi, Gatti parte da una storia vera passata alle cronache come “la nave dei bambini”, e attraversa di nuovo il mare, dalla Libia al largo di Lampedusa, per raccontare il viaggio di una famiglia siriana attraverso la voce di un bambino non ancora nato, Mabruk.

Partiamo da questo festival, dove porti il tema dei migranti di fronte a tanti bambini. Come si fa a cambiare la narrativa sviluppata fino a questo momento rivolgendosi a un pubblico così giovane?

Festival come questi sono eventi importantissimi perché si respira ottima aria, aria pulita, e soprattutto aria umana. Qui ho trovato molta disposizione all’ascolto, in un momento storico in cui invece si tende a farlo sempre meno: la gente scrive tanto, commenta, butta fuori emozioni, spesso anche odio, ma non ha la pazienza di restare in silenzio e prestare le orecchie per ascoltare la testimonianza di qualcuno, che può essere condivisa o no. E questa è un’opportunità, soprattutto per i giovani che sono cittadini del presente, non del futuro come spesso si dice. Spero che con loro accada quello che è accaduto anche a me quando ero bambino.

Raccontaci.

Io sono cresciuto in Lombardia dove il razzismo verso gli immigrati del sud era molto forte. Da piccolo quando ero all’asilo i bambini con cui giocavo mi dicevano di non parlare con Ennio, perché abitava con i “terroni” – così li chiamavano – e lui nemmeno era un immigrato: era di una famiglia lombarda che abitava in un caseggiato in cui si trovavano anche immigrati del sud. Oggi solo un pazzo potrebbe fare una differenza tra lombardi, immigrati, non facciamo più caso ai cognomi, giriamo l’Italia da nord a sud. Un po’ la televisione ha aiutato, ma soprattutto ha aiutato la scuola. Io sono cresciuto in una scuola che non faceva differenze, era il mondo fuori che le faceva. E spero che questo accada anche per le persone che non sono nate in Italia e arrivano nel nostro Paese.

In qualche modo anche tu ti sei “travestito” da migrante.

Sì il primo nome finto che ho usato per fare un immigrato rumeno è stato Roman Ladu. Allora lavoravo al Corriere e andai alla nostra centrale telefonica, dove avevamo gli elenchi di tutta Italia, e per cercare un nome che fosse assonante con un nome rumeno, ho aperto l’elenco telefonico di Nuoro, trovando Ladu, che è un cognome sardo, mentre Roman l’ho preso in prestito da un’amica che abita in provincia di Treviso, che fa Romàn di cognome. Così ho fatto pensare all’autorità che fossi rumeno e son stato portato in un centro di detenzione per raccontare dal di dentro quello che accadeva, tanto che quel centro di Milano poi è stato chiuso. E questo è successo nel duemila.

Qui invece porti il tuo libro “Nato sul confine” che racconta di una famiglia siriana in fuga dalla guerra.

Sì parla di persone, di famiglie che sotto i bombardamenti sulla Siria fanno l’unica cosa che è un dovere etico ma anche biologico: mettere in salvo i propri bambini. Chiedono agli uffici consolari europei se possono mettersi al sicuro in Europa, perché hanno letto che lì ai siriani viene concesso l’asilo a tempo indeterminato, ma gli uffici consolari rispondono che non sono previsti visti d’ingresso. E a una domanda semplicissima, come dobbiamo fare?, la risposta è stata vi dovete arrangiare. Il motivo per cui le persone vanno in Libia e rischiano la vita attraversando il mare sui barconi è perché rispondono a questa richiesta delle autorità consolari: si stanno arrangiando. E l’unica agenzia internazionale disposta – dietro il pagamento di denaro – a dare loro un aiuto e metterli in salvo è la mafia dei trafficanti internazionale. Raccontare queste storie è fondamentale perché non soltanto aumentiamo consapevolezza, ma anche perché spero che con la storia di Mabruk, piccoli e grandi lettori e lettrici possano rispondere in futuro a chi descrive questo bisogno di salvezza come una minaccia, che sono persone come noi. Questo non vuol dire che è la soluzione del problema, la questione è molto più complessa.

A proposito di questo, pensi che ci siano stati dei passi avanti da parte dell’Unione europea? Soltanto poco tempo fa abbiamo visto diversi Stati addossarsi la colpa a vicenda riguardo il tema migranti.

Da quando io sono partito come Bilal, in questo viaggio da infiltrato che è durato quattro anni sul campo, sono passati vent’anni. Era il 6 novembre del 2003. Io avevo cominciato ad occuparmi delle nuove migrazioni verso l’Italia già dagli anni novanta. Prima erano i cittadini dal Marocco, poi l’Albania e l’Europa dell’est. Era il momento in cui l’Italia smetteva di essere terra di emigrazione e diventava terra di immigrazione, per motivi economici e demografici. E noi italiani abbiamo dimenticato presto quello che eravamo, perché non è vero che si partiva col permesso di soggiorno, con un invito, del resto se esiste la mafia negli Stati Uniti qualcuno l’avrà portata. Ma allo stesso tempo abbiamo portato, la cultura, la fatica, il lavoro, e abbiamo partecipato a un fenomeno mondiale. Da Bilal a oggi devo dire che nulla è cambiato, ci sono stati dei miglioramenti nel percorso, ma siamo bene o male al punto di partenza. Mentre l’Italia, e l’Europa, si impoveriscono per un calo demografico drammatico, che nel giro di dieci vent’anni toglierà le risorse per mantenere il sistema sanitario e previdenziale, e che prevede un crollo del nostro Pil del 12 per cento, c’è una persona che sta al di fuori dei nostri confini ed è in uno stato di bisogno perché magari si trova in una città devastata dalla guerra, oppure vive in un paese povero, o ancora ha studiato e vorrebbe mettere a frutto le proprie conoscenze in Europa. Ci sono ragioni infinite perché questo accada. La domanda che ci dobbiamo fare è questa: è possibile entrare legalmente?

È possibile?

La risposta è no. Addirittura alla fine degli anni novanta, con la seconda legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, era prevista una “sponsorizzazione”: una persona, se non aveva un invito, poteva entrare depositando una cauzione – magari anche rilasciata da parenti o amici o dal datore di lavoro – che garantiva un permesso per sei mesi in modo che la persona potesse trovare un lavoro in questo periodo. Se non lo trovava, doveva tornare indietro. Ma dato che noi allo stesso tempo abbiamo imprenditori disperati perché non riescono a trovare figure come camerieri, operai e altri mestieri specializzati, questa chiusura totale porta soltanto le persone a muoversi attraverso canali illegali.

Tu che hai toccato con mano il problema alla radice, come pensi si possa risolvere?

Il problema principale è che il tema dei migranti, sia dal punto di vista più umano sia da quello economico, è stato affrontato in modo prevalentemente ideologico. Una destra ha voluto e sostiene la presunta chiusura totale dei confini, e una sinistra che ha affrontato l’argomento proponendo una rivoluzione culturale internazionale, l’abbattimento dei confini, che è bellissima a parole ma in mezzo ci sono i problemi reali. E in mezzo a questo “gioco” di tiro alla fune, non abbiamo affrontato i problemi reali. La questione è che come possiamo fare a trasferire il flusso migratorio da canali legali a canali illegali, premesso che noi abbiamo bisogno di immigrazione, di persone? A mio parere il tema migratorio non è un tema da ministero dell’Interno, perché già come lo abbiamo affrontato noi significa che chiudiamo il tema all’interno dei nostri confini, ma l’origine è fuori. Quindi è un tema da ministero degli Esteri, da ministero del Lavoro, da ministero dell’Istruzione, che possono agire attraverso la diplomazia e le Ong. Quando erano presenti queste organizzazioni, le persone venivano raccolte dalle navi e il governo italiano poteva ordinare di andare a sbarcarle altrove, adesso che non c’è quasi nessuno in mare, i barconi arrivano direttamente sulle nostre coste, e nessuno ha il coraggio di lasciarli affondare in mare, anche se poi a volte è accaduto. L’attenzione che è stata data per tanti anni sul soccorso in mare ha fatto un po’ il gioco della destra che accusa le Ong di essere la causa dell’immigrazione, che è ridicolo soltanto pensarlo. Ma forse nello stesso tempo non abbiamo posto l’attenzione sull’origine di questa immigrazione: perché tanti ragazzi e ragazze partono? E oltre a chi parte per ragioni di sicurezza individuale, c’è anche chi lo fa per inseguire una possibilità di mondo migliore. Su questo ci dev’essere una visione comune tra tutti gli Stati che compongono l’Unione europea.

Ultima domanda. Hai visto l’ultimo film di Matteo Garrone? Intanto ti chiedo se ti è piaciuto, e poi se pensi che il cinema possa arrivare più direttamente a un pubblico più ampio rispetto a un reportage giornalistico.

Il film “Io Capitano” di Matteo Garrone è un film straordinario, molto coraggioso soprattutto di questi tempi. È un film che ha meritato il Leone d’argento al Festival di Venezia e spero, con un grande in bocca al lupo, che possa anche vincere l’Oscar. Racconta il viaggio che è la stessa rotta che ho fatto io dal Niger alla Libia. E racconta gli stessi fatti. Bilal è la mia esperienza da infiltrato per quattro anni sul campo, è un libro che contiene tantissime storie, ma richiede una dedizione per la lettura. Il cinema ha la grande capacità di trasformare queste storie in immagini, e Matteo Garrone lo fa nel modo migliore. Quindi chi non ha letto Bilal e vuole conoscere la realtà di chi arriva fino alle nostre coste, dovrebbe vedere questo film. È una testimonianza molto importante.

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