(Foto credit: White House Photographic Office)

Addio a Henry Kissinger. L’ex segretario di Stato americano si è spento nella sua casa in Connecticut all’età di 100 anni.

Un secolo pieno, il suo, che venne ricordato per la celebre frase “il potere è il massimo afrodisiaco” che sintetizza appieno la figura e la visione del mondo che il politico statunitense mantenne per tutto l’arco della sua vita. Fu infatti consigliere di ben 12 presidenti americani, da John Fitzgerald Kennedy a Joe Biden, ed ebbe un’influenza senza eguali.

Amato e odiato, c’è chi lo ricorda per aver saputo barcamenarsi, con la sua arte della diplomazia, tra le più grandi potenze internazionali, e chi invece lo condanna per la sua “realpolitik” che superava la brutalità delle decisioni prese con la volontà di dare agli Usa un ruolo di primo piano nello scacchiere mondiale. A qualsiasi costo. Anche per questo venne soprannominato il “Machiavelli d’America”.

Suo, infatti, fu il pieno appoggio all’invasione della Cambogia e il sostegno al colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile del 1973 che sostituì una volta per tutte Salvador Allende. Suo fu il ruolo da protagonista che si ritagliò durante il conflitto del Kippur, nello stesso anno, che vide Israele vincitrice.

Un mondo, quello dei primi anni Settanta, che vede un’altra grande rivoluzione in Europa, e precisamente in Italia, dove la DC di Aldo Moro si avviava verso il “compromesso storico” appoggiato dal leader del PCI, Enrico Berlinguer. Un accordo che non vedrà mai la luce, in seguito al rapimento e all’uccisione del presidente della DC nel maggio 1978, ma che comunque già dal principio gli Stati Uniti non vedevano di buon occhio.

Furono i Kissinger Cables, resi pubblici da WikiLeaks nel 2013, a confermarlo. I cablo di quegli anni registrano infatti che la diplomazia Usa assiste preoccupata e a tratti spazientita alle lotte interne della DC, che vorrebbe invece vedere rigenerata contro un PCI che acquista sempre più consensi, prestigio e legittimazione.

In particolare, è proprio la figura di Berlinguer ad allarmare gli americani, in quanto carismatico e capace di conquistare più voti del suo predecessore Luigi Longo. Il 28 settembre, il 5 e il 12 ottobre del 1973, lo stesso dà alle stampe su “Rinascita” – settimanale ideologico del PCI – le sue riflessioni sui “fatti cileni”, quindi sul golpe con cui i militari del Paese latino-americano, con il decisivo contributo dei servizi segreti Usa, deposero Allende, socialista-marxista.

L’allora segretario comunista conclude la sua analisi sostenendo che sarebbe stata temeraria la conquista del potere in Italia da parte della sinistra con il 51 per cento dei consensi elettorali. Ma una strategia di questo tipo, aggiunge Berlinguer, avrebbe esposto il Paese ai rischi già visti in Cile. La soluzione, per il leader rosso, stava nella “collaborazione delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica”. In poche parole: il compromesso storico.

Tutto ciò viene riferito dall’ambasciata di Roma al Dipartimento di Stato. Da qui inizia una corsa contro il tempo degli Usa per “evitare il peggio”. E proprio Henry Kissinger, a Londra per incontrare il nuovo ministro degli Esteri, Antony Crosland, mostra tutta la sua apprensione: “La questione dell’obbedienza del PCI a Mosca è secondaria. Per la coesione dell’occidente i comunisti come Berlinguer sono più pericolosi del portoghese Cunhal”. Poi aggiunge: “Sembrano tutti ipnotizzati dai successi del PCI, senza avere idea di cosa fare per bloccarne l’ascesa”.

Il pericolo maggiore, per l’ex segretario di Stato, stava proprio nell’inserimento del Partito comunista nelle stanze dei bottoni: “La reazione internazionale – diceva Kissinger – sarebbe probabilmente il mutismo se il PCI aumentasse il suo ruolo in maniera solo graduale e se la DC rimanesse il leader nominale della coalizione”. È fondamentale per la diplomazia Usa che il PCI non arrivi nemmeno ad ottenere quelle che chiama “le tre benedizioni”: quella del popolo italiano, quella del Vaticano e quella degli Stati Uniti.

Per assicurare questo disegno politico, gli americani spingono su Comunione e liberazione, fondata da don Giussani. Ma le volontà statunitensi troveranno la strada definitivamente sbarrata nell’estate del 1976, con il secondo governo Andreotti, favorito dall’astensione – decisiva – del PCI.

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