La lettura del vostro articolo, pubblicato in data odierna a firma A. Ghiani, intitolato “Malasanità. L’orrore nel Sud Sardegna: paziente legato e “contenuto” con dei calzini da tennis”, col quale riportate e definite “malasanità” il ricorso alla contenzione per un paziente che, non vi è dubbio, è un ospite del nostro Centro, definendolo sproporzionato e quindi ingiustificato, mi spinge a chiedervi formalmente di esercitare il diritto di replica.

L’articolo presenta alcune inesattezze non insignificanti. La complessità della diagnosi è stata liquidata genericamente come psichiatrica, da cui conseguono i riferimenti al pensiero del Dr. Basaglia sulla gestione delle persone con patologia di quel genere. In questa scia l’altra notizia non vera è rappresentata da l’aver identificato il Centro come un Servizio psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC).

Il nostro ospite non è una persona affetta da malattia psichiatrica in senso stretto, ma da una malattia cerebrale su base genetica che ha causato un grave ritardo mentale. Non possiede un linguaggio adeguato e non è in grado di comprendere e valutare i pericoli dovuti al disturbo del comportamento alimentare reiterato e permanente, caratterizzato dalla compulsione a cibarsi di ogni cosa o oggetto non commestibile, definito con il termine di “picacismo” di cui appunto avete parlato.

Tale comportamento può avere conseguenze molto gravi, che l’hanno condotto ad un ricovero e intervento chirurgico urgenti, proprio come accaduto di recente.

Il grave ritardo e l’assenza di un linguaggio adeguato hanno sempre impedito ogni possibilità di collaborazione volta a contenere o correggere questo sintomo così pericoloso. La reiterazione continua non consente di proteggerlo dal suo comportamento adottando la vigilanza stretta a causa della velocità e imprevedibilità della compulsione a ingoiare di tutto, alla quale si accompagnano reazioni auto e eteroaggressive quando viene fermato. Il contesto di sofferenza organica (dovuta cioè ad una lesione cerebrale diffusa come nel suo caso) rappresenta un tratto sfavorevole con una tendenza alla progressione peggiorativa.

Alla luce di quanto precisato sinora, il ricorso ad una così pesante misura di restrizione trova una giustificazione come scelta di tutela dell’incolumità per una persona che presenta un sintomo assai grave e costantemente pericoloso che ha determinato più volte conseguenze che hanno messo già a repentaglio la sua vita.

Forse se – dopo aver ricevuto la segnalazione e la foto del nostro ospite (che è stata fatta all’interno della Ns struttura senza che il tutore dell’ospite né il sottoscritto né il Legale rappresentante dell’Associazione ne fossero a conoscenza e tantomeno autorizzassero chicchessia ad effettuarla e ancor meno a diffonderla) si fosse provveduto a chiedere delle comuni spiegazioni si sarebbe potuta evitare una comunicazione accusatoria e denigratoria dell’impegno professionale degli operatori sanitari.

Visto invece che l’articolo è stato costruito su dichiarazioni di persone non competenti che hanno fornito, in maniera di dubbia legalità, un documento datato e una foto, invoco il diritto alla replica professionale e quello della verifica della qualità delle fonti, per una informazione rispettosa di una storia clinica che non si può racchiudere nell’attribuzione di un reato così grave e infamante.

Con la presente Vi si richiede quindi formalmente di rettificare il contenuto dell’articolo citato alla luce di quanto precisato per dovere di cronaca e per evitare l’attribuzione dell’accusa di diffamazione.

Valtere Merella, Neurologo Direttore Sanitario