L’emergenza Covid ha mostrato tutti i limiti del nostro Sistema sanitario: dopo due anni siamo al punto di partenza. Esplosa con la prima ondata che ha colto tutti impreparati, la pandemia permanente ha evidenziato la carenza di posti letto di terapia intensiva ma anche quelli di degenza ordinaria, perché il numero complessivo di specialisti applicati agli ospedali italiani sono inferiori sotto tutti i parametri rispetto ai valori medi europei ed enormemente più bassi rispetto ai Paesi di maggiore rilevanza (Francia, Germania, Inghilterra, ecc).

La sanità italiana – e nello specifico quella sarda, soprattutto quella dei così detti territori – negli ultimi decenni è stata falcidiata da tagli trasversali irrazionali e irresponsabili. Evidentemente tutti questi fattori sono stati determinanti nel favorire il tracollo delle attività ospedaliere in pandemia. La crisi si è poi acuita con la seconda e terza ondata, durante le quali le carenze accumulate nel corso di anni hanno determinato un ulteriore peggioramento della situazione sanitaria del Paese.

Nel nostro Paese si calcolano ogni giorno i morti per Covid e si trascura l’aumento della mortalità per malattie tempo-dipendenti (prevalentemente cardiovascolari) e quella per tumori.
Abbiamo avuto due anni per capire il virus e non siamo ancora riusciti a conviverci. La normalizzare è l’obiettivo: bisogna programmare un aumento della ricettività dei servizi sanitari, rendendo strutturali, in ogni ospedale, i reparti infettivi- permanenti o riattivabili in caso di nuove, prevedibili ondate – e potenziare la medicina del territorio. Invece si va nella direzione opposta.

Il numero complessivo di posti letto ordinari per 100 mila abitanti in Italia è molto più basso rispetto alla media europea (314 vs 500) e ci colloca al 22esimo posto tra tutti i Paesi europei. Anche per i posti letto in terapia intensiva il nostro Paese non brilla: se in era pre-Covid avevamo 8.6 posti ogni 100 mila abitanti, con l’emergenza sanitaria sono stati aumentati a 14, sebbene solo una piccola parte risulterebbe poi stata effettivamente attivata, e comunque parliamo di numeri inferiori rispetto per esempio alla Germania (33 posti letto ogni 100mila abitanti).

Gli operatori sanitari inoltre sono inadeguati per la popolazione in Italia: i medici specialisti ospedalieri sono circa 130 mila, 60 mila unità in meno della Germania e 43 mila in meno della Francia; gli infermieri sono nettamente inferiori a quelli di altri Paesi: 7 ogni 1000 abitanti contro 11 della Francia e 13 della Germania.

Anche per le spese sanitarie correnti l’Italia è tra i fanalini di coda in Europa. Secondo i dati Eurostat l’Italia spende solo l’8.8% del suo PIL per la Sanità, di cui circa 1.5/2 punti sono rappresentati dai contributi alla spesa dei privati cittadini, mentre Paesi come Francia e Germania superano l’11%. Inoltre la spesa sanitaria corrente per abitante è stata stimata in Italia intorno a 2.500 euro, contro i 5.100 euro della Svizzera, i 4.100 della Germania e i 3.800 di Francia e Regno Unito.

Il Recovery Plan prevede di riservare solo l’8.3% dei fondi alla sanità (18.5 miliardi su 222): 7 miliardi sono per il potenziamento dell’assistenza sanitaria territoriale, 8.6 miliardi (3.9%) per l’aggiornamento tecnologico degli ospedali e la ricerca scientifica. Ma viste le carenze amministrative della nostra burocrazia, difficilmente arriveremo ad ottenere quei fondi. Che fare, dunque?
Due le questioni urgenti: una, legata all’inadeguatezza dei vecchi parametri organizzativi che ancora oggi sovraintendono l’organizzazione e la classificazione dell’ospedale (bacino d’utenza e posti letto, volumi, tempi di assistenza ecc).

Due, l’urgenza di una riforma del sistema del management generale e della governance complessiva: bisogna superare il modello monocratico verso un altro improntato a modalità partecipata e decentrata più capace di governare e gestire l’alta complessità che rappresenta la principale caratteristica degli ospedali.

L’obiettivo è il ritorno alla normalità. Ma senza una ristrutturazione sanitaria il rischio è di restare in perenne emergenza.

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