Sergio Atzeni riposa dal 1995 nel nuovo cimitero di Cagliari, ideato negli anni Trenta dell’altro secolo per integrare il camposanto ottocentesco di Bonaria.

È il San Michele, caratterizzato da un imponente famedio, un’alta struttura coperta da cupola semisferica e bizantineggiante, raccordato ai due avancorpi laterali (che ospitano gli uffici e camere mortuarie) tramite porticati retti da pilastri di travertino. Intorno regnano il silenzio, il profumo intenso delle rose, delle peonie, delle ortensie, delle dalie e delle fresie e l’erba fresca.

Al piano terra, in alto, sotto una tettoia di cemento, nemmeno una foto, riposa il più importante scrittore sardo degli ultimi cinquant’anni. Lo scrittore è li. Muto nel brusio del vento, qui dov’è muta la città: per lui non suona un tenero blues… C’è solo uno strano silenzio, tace la vita, il vortice dei sentimenti, sono senza voce i capricci e la carnale gioia, affoga la rabbia per la Sardegna annegata dentro il ventre di un’enorme balena, sparisce l’immagine che mi tormenta, l’isola che spalanca come cosce in svendita i bianchi litorali a turisti che ormai non la desiderano più.

I suoi romanzi sono ambientati in Sardegna e traggono spunto soprattutto dalla passione per la ricostruzione storica di scenari del passato sardo, dall’epoca dei nuraghi fino alle lotte sociali dei minatori del Sulcis e dell’Iglesiente a inizio Novecento. I protagonisti delle sue storie appartengono alle più diverse classi sociali, ma Atzeni mette in scena soprattutto il popolo degli umili, degli sconfitti, dei marginali.

“Passavamo sulla terra leggeri”, pubblicato postumo nel 1996 da Mondadori, è una rievocazione mitica della storia dei sardi, vista e raccontata come memoria comune tramandata di padre in figlio. Qui, come nel pure postumo “Bellas mariposas” (Sellerio 1996, da cui nel 2012 Salvatore Mereu ha tratto l’omonimo film, selezionato per il Festival di Venezia), Atzeni combina insieme sardo, in specie quello popolare della periferia di Cagliari, e italiano attuando una rivalutazione della lingua locale simile a quella operata da Andrea Camilleri con il siciliano.

La vita e la carriera di scrittore si concludono tragicamente nel mare di Carloforte, dove Atzeni muore il 6 settembre 1995 gettato da un’onda sugli scogli dell’isola di San Pietro.

Oggi “ci mancano le parole nuove e le storie che avrebbe creato, in tempi tanto difficili, per raccontarci chi siamo, e ancor di più ciò che vogliamo essere, su quali rappresentazioni del passato e del presente vogliamo poggiare le nostre proiezioni identitarie, individuali e collettive” scrive Gigliola Sulis, sua massima esperta.

La Sardegna muore di una morte diversa da quella che Atzeni aveva immaginato: non è malaria, non è colera, non è tifo, non è sete, è mancanza di speranza, e la vita che si sfoglia, pezzo dopo pezzo.

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