Ormai il quadro è chiaro: per mare e in terra la Sardegna è destinata a diventare una piattaforma di produzione energetica, un’Isola destinata all’ennesima servitù.

Sarà l’ennesimo schiaffo a una terrà che era miracolosamente rimasta vergine, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. E che dai famigerati Piani di Rinascita è invece diventata un laboratorio di sperimentazioni economiche e sociali, buone ad arricchire solo qualche ruffiano continentale, un Frankenstein costruito male dalla testa nuragica e dal corpo osceno, industriale e male impiantato.

Almeno allora ci fu un rigetto. Oggi invece ci apprestiamo a una nuova, ennesima mostruosa mutazione senza battere ciglio. Avverrà un nuovo lifting selvaggio, che oltre a sfregiarci il corpo ci ruberà definitivamente l’anima. Ma non esiste un dibattito pubblico. Un movimento di protesta. Le marce si fanno per il pellet, la gente in casa con le mani calde si accontenta dell’elemosina di un reddito di cittadinanza e del bel sole che sta per arrivare.

Il giornalista Anthony Muroni nella sua pagina Facebook scrive: “Se i sardi non faranno resistenza contro le trivelle “diffuse”, le pale selvagge e l’invasione indiscriminata dei mega parchi fotovoltaici possono già alzare bandiera bianca e dimettersi da cittadini per indossare la livrea dei sudditi. Nessuno può decidere di installare nuove servitù, nel nome di un “green” di bandiera, senza concordare una pianificazione sostenibile. E senza prima spiegarci cosa cerca, a chi andrà quel che trova e cosa di positivo ricadrà sulla Sardegna. È ora di finirla con il vassallaggio già sperimentato con chimica, petrolchimica, raffineria, eolico e rajos de fogu che hanno consumato e inquinato territorio, coscienze e negato un vero sviluppo”.

È ora di finirla, ha ragione Muroni. Ma chi, quando, in che modo prenderà in mano le redini della protesta?

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