Tra i primi giornalisti italiani ad esplorare il web, Luca De Biase è da anni impegnato nello studio e sviluppo di nuovi media applicati alla nostra società, sempre più impregnata di “social” e sempre meno di “sociale”.

Di questo ha parlato nella serata di mercoledì 18 gennaio a Cagliari, in occasione della due giorni “E se fosse…Consapevolezza è Libertà. Disegnare un mondo diverso, immaginare traiettorie possibili”, tenutasi alla Fondazione di Sardegna.

Con una formazione accademica storico-economica tra Milano e Parigi, De Biase è caporedattore dell’inserto del giovedì “Nòva24” del Sole 24 Ore. Ha fondato e diretto il periodico per tablet “La Vita Nòva” che ha ricevuto numerosi premi internazionali tra i quali Moebius 2011, The Lovie Awards 2011, M20, Spd, iTunes Rewind 2011.

È membro della Commissione sulle garanzie, i diritti e i doveri per l’uso di internet alla Camera dei Deputati ed è stato membro dell’unità di missione per la Presidenza del Consiglio sull’Agenda Digitale italiana nel 2013-2014.

Nel 2016 la Media Ecology Association gli ha assegnato il “James W. Carey Award for Outstanding Media Ecology Journalism” in occasione dei MEA Awards di quell’anno.

Sei stato tra i primi giornalisti italiani ad aprire un blog, che si sposava piuttosto bene con questo mestiere. Poi sono arrivati i social che in qualche modo hanno compromesso la qualità del giornalismo. Com’è cambiato il tuo lavoro in questi anni?

Il giornalismo è il suo metodo. Il giornalismo è una disciplina che si applica alla ricerca, artigiana ed esigente, di informazioni documentate e verificate, guidate da un sistema di incentivi indipendenti dalle fonti, espresse in modo chiaro e legalmente attento, con valutazioni proporzionate. La definizione di questa disciplina è diventata ancora più importante e cristallina nel contesto caotico che si è sviluppato con l’avvento dei social network, nel quale ogni elemento di credibilità, indipendenza e verificabilità delle informazioni è stato messo in discussione. Certo, alcuni giornali e alcuni giornalisti si sono separati dal giornalismo. I motivi sono molti: ambizioni personali, modelli di business, confusione mentale, difficoltà tecnologiche, o altro ancora. Il giornalismo di qualità si è chiaramente giovato delle opportunità di conoscenza offerte da internet. In quanto molto umilmente cerco di fare giornalismo, il mio lavoro è cambiato molto nelle forme, che sono importantissime, ma poco nella sostanza.

Facebook ha annunciato che darà un taglio alla sua piattaforma dedicata interamente alle notizie. Non serviamo più nel mondo dei social?

Dice Facebook che le notizie provenienti dai giornali non facevano più del 3% del traffico sul social network. Se è vero, la separazione era già avvenuta. È una conseguenza realistica della diminuzione dell’importanza della pubblicità nel modello di business dei giornali. I giornali stanno cercando di aumentare la quota di entrate che arrivano dagli abbonamenti. Quando si contava soprattutto sulla pubblicità, si subiva la tentazione di assecondare molto le esigenze degli inserzionisti. Cercando gli abbonamenti si deve cercare di assecondare le esigenze del pubblico. È probabilmente una tendenza più sana.

Anche Twitter non se la passa benissimo e molti giornalisti si stanno spostando su Mastodon. Non c’è il rischio che si crei una sorta di “club” di giornalisti sempre più lontani dalla fetta più grossa degli utenti del web?

Dopo tanti anni di media sociali, il pubblico che apprezza il giornalismo è quello che riconosce il valore del suo metodo. E probabilmente non è la maggioranza, anche se non va sottostimato. Un ghetto per i giornalisti non è del tutto impossibile, ma sarebbe davvero inutile. La domanda, però, ne fa nascere un’altra: come si farà a trovare il giornalismo se i giornali perdono traffico e il lavoro dei giornalisti raccoglie paradossalmente meno attenzione della disinformazione o dei discorsi di odio nei social attuali? È probabile che una fioritura di nuove piattaforme si sviluppi, per seguire le innovazioni normative e per assecondare le esigenze sempre più articolate del pubblico. Attualmente, peraltro, oltre metà del traffico su internet è sviluppato da sei grandi piattaforme. Una minore concentrazione non potrebbe che fare bene alla qualità dell’ecosistema mediatico. Che si riesca a ottenerla è tutt’altro che assicurato.

Oggi che la pubblicità vira verso nuove figure come gli influencer, si richiede ai giornalisti di fare altrettanto per “sopravvivere”. È possibile conciliare le due attività?

I giornalisti non fanno pubblicità. Ed è l’informazione che raccolgono, non la loro persona, a influenzare le coscienze dei loro pubblici. Ovviamente, alcuni giornalisti finiscono per essere a loro volta considerati credibili, autorevoli, popolari. Ed è fisiologico, oltre che spesso molto meritato. Ma questo non li accomuna agli influencer, secondo me. Se lo diventano, facendosi pagare per quello che dicono o per associare alla loro persona qualche marchio, cessano di essere giornalisti.

La società OpenAI di Elon Musk è la più avanzata in termini di scrittura automatizzata e tante testate internazionali si affidano sempre più agli algoritmi per realizzare breaking news o articoli di sport, finanza ed economia. Come la vedi?

OpenAI che in origine è stata finanziata anche da Elon Musk e che sembra in procinto di essere finanziata da Microsoft arriva alla produzione di articoli d’informazione adesso con una potenza di calcolo molto elevata. Ma l’esperienza di Narrative Science e altre aziende che producono notizie pubblicate in diversi giornali (tra l’altro su Associated Press) soprattutto per argomenti con molti dati numerici è stata analizzata qualche anno fa da una ricerca della Columbia di New York. È risultato che il pubblico considera gli articoli prodotti dalle intelligenze artificiali come più affidabili e meno divertenti di quelli degli umani. Quindi gli errori degli umani restano divertenti. In prospettiva il compito dell’intelligenza artificiale non sarà tanto scrivere articoli quanto fare ricerche e allargare la base di conoscenza a disposizione di chi vuole fare giornalismo.

Stando sul tema dell’evento, il web ci ha reso più consapevoli e liberi? Esiste un modello di business che ci aiuti a raggiungere l’obiettivo?

La conoscenza rende liberi e internet aumenta le opportunità di accesso alla conoscenza. Ma le opportunità le coglie solo chi lo sa fare e vuole farlo. Perché il web aumenti effettivamente le probabilità che ci siano persone consapevoli e libere occorre che la tecnologia sia accompagnata da modelli culturali ed educativi, interfacce e sistemi incentivanti, che privilegino il confronto costruttivo nella diversità: un terreno comune nel quale si incontrino rispettosamente diverse correnti di opinione. La frammentazione sociale, la polarizzazione ideologica, la radicalizzazione tribale, ha diviso la società e distrutto il terreno comune nel quale si potevano incontrare costruttivamente le diverse tendenze ideali e i diversi interessi materiali. Non il web – che è un bene comune – ma l’interpretazione finanziaria delle opportunità offerte dal web costruendo enormi poteri economici ha contribuito alla frammentazione sociale, avvenuta peraltro in Occidente e non altrove. Un’interpretazione meno concentrata sul breve termine e sui ritorni finanziari – forse come quella che è implicita nella Dichiarazione dei principi e dei diritti digitali firmata dai tre presidenti delle istituzioni europee – potrebbe favorire l’avvento di un ambiente digitale più sano.

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