Sono le ore 21 e al Corto Maltese, sul lungomare del Poetto di Cagliari, che quest’anno ospita il festival letterario Marina Café Noir, parte un applauso fortissimo. Si è appena concluso l’intervento di Carlotta Vagnoli, fiorentina classe 1987, attivista femminista e scrittrice che presenta in anteprima nazionale il suo libro d’esordio “Maledetta sfortuna” (Fabbri Editore). Non si vede tanto in tv né sui quotidiani, per ora, ma sui social va alla grande: il suo profilo Instagram conta oltre 250mila follower, e in effetti la maggior parte delle sue supporter sono tutte molto giovani. Anche in questa occasione, sedie e tavolini son tutti occupati fin sulla spiaggia e tanti restano in piedi ad ascoltarla. Il pubblico è prevalentemente femminile, tra di loro c’è anche qualche “vecchia guardia”, femministe che son scese in piazza negli anni Settanta a reclamare i propri diritti.

Il libro, già sold out alla Feltrinelli di Cagliari (lo è stato anche a quella di Milano Centrale, per dire) e negli stand disposti per l’evento, parte dall’esperienza personale dell’autrice, che nel 2016 è vittima, per un anno intero, di violenza domestica: il compagno ha tentato più volte di strangolarla, ma lei è riuscita a realizzare per tempo che era arrivato il momento di andarsene. “Maledetta sfortuna ha un significato ben preciso”, racconta in conversazione con l’editore di Add Gianmario Pilo. “È un po’ come mi sono sentita io dopo quel che mi è capitato: sono stata sfortunata, maledettamente sfortunata, mi dicevo. Una maledizione è un qualcosa che deriva dal fantastico, che ha a che fare con la magia, lo sentiamo lontano da noi. La sfortuna invece è un qualcosa che non puoi prevedere, come quando ti cade un vaso in testa mentre passeggi. Per diverso tempo ho pensato di essere stata solo sfortunata, ma non è così: quel che mi è successo è frutto di un sistema che non fa nulla per evitare che non avvenga, anzi, lascia che ci si siano i presupposti per far accadere esattamente il contrario”.

È una “survivor”, come si definisce, e oggi racconta la sua storia agli alunni e alle alunne delle scuole medie di tutta Italia, insegnando loro come acquisire consapevolezza di sé, del proprio corpo e della propria sessualità, perché è da lì, ripete sul palco, che bisogna partire.

Cominciamo dal tuo libro “Maledetta sfortuna”, fresco fresco di pubblicazione. Com’è nato e perché l’hai scritto?

Il libro nasce molto facilmente, l’ho scritto in due mesi durante la pandemia, perché dopo un percorso di quasi quattro anni in cui ho insegnato queste materie nelle scuole è venuto molto naturale. Inizialmente volevo fare un saggio su quelle che erano le varie lezioni, solo che lezioni hanno un tempo limitato, e quindi ho pensato a una cosa: manca proprio la fluidità del racconto della violenza di genere. Come si passa dagli stereotipi di genere alle varie manifestazioni, al linguaggio d’odio? Così ho deciso di metterle una dietro l’altra, con tutte le fonti che avevo trovato negli anni, con tutte le informazioni che avevo ripreso, cercato, trovato e studiato. È come quando vado a fare lezione, mi piaceva che fosse fruibile dai 16 anni in su – perché forse sotto è un po’ crudo per certi aspetti – e che soprattutto potesse essere universale. Partire proprio dall’inizio, senza cercare il separatismo, senza complicare le cose. Alla fine ho inserito anche un glossario, for dummies [per principianti, ndr].

A proposito di questo, la questione di genere viene vista un po’ come un qualcosa di astratto, penso ad esempio alle battaglie sulla lingua italiana. Noi abbiamo l’esempio di Michela Murgia che da tempo ormai si batte su questo. Come si fa a concretizzare un concetto che per la maggior parte delle persone, a quanto pare, sembra così astratto?

Mah per quanto riguarda la lingua, l’unica cosa è l’abitudine. Si stanno prendendo sempre più spazi. Giusto per tornare a Michela, lei è stata la prima a portare lo “schwa” sulla stampa. Non ti dico quello che è successo dopo! Il punto è che fonemi così come nuove parole, anche di uso inglese, non sono ancora stati tradotti nei gender studies italiani perché c’è ancora poca accademia. Le parole entrano molto facilmente nell’uso quotidiano, basta usarle. Stessa cosa vale per i fonemi. La praticità ti porta alla consuetudine. Ci sono mille modi per rendere un linguaggio inclusivo. Se troviamo resistenza vuol dire necessariamente che o stiamo andando nella giusta direzione o che dall’altra parte dà veramente tanto fastidio non essere più il soggetto, il centro dell’azione. Siamo un Paese, ma anche una società in generale, che adora edulcorare il passato. Quindi quello che ci hanno dato finora lo dobbiamo mantenere perché se no sembra che la società vada in rovina. Questo rallenta veramente un sacco il processo di evoluzione. Ma la “Generazione Z” la vedo molto ben piazzata nella rivoluzione.

A proposito di Generazione Z, parliamo di ragazze molto giovani che stanno sui social e cercano di emulare le superstar, che talvolta lanciano dei messaggi del tipo: “Siate libere di mostrare il vostro corpo quando e come volete”. Secondo te questo fenomeno non rischia di essere controproducente per loro? Qual è stata la tua esperienza nelle classi in cui sei stata?

Diciamo che l’idolatria è sempre stata una cosa che ha afflitto tutte le generazioni, anche la mia dei Millenial. Emulare quello che fanno le ragazze più grandi è sempre stato un punto abbastanza solido in tutte noi. Sicuramente con il digitale ci sono dei rischi in più, perché c’è la polarizzazione, c’è molto odio online, c’è la condivisione di materiale intimo non consensuale. Si parla di massimi temi, lo so, ma nella società ideale l’autodeterminazione dovrebbe essere insegnata dalle scuole materne alle bambine, liberandole dalla passività in cui la società e la scuola le crescono. Dovrebbero arrivare già a 11-12 anni consapevoli della propria autodeterminazione, ma questo evidentemente non è possibile. L’esperienza poi ha insegnato a tutte. Si deve sempre ricordare che bisogna fare le cose con cognizione di causa: non c’è niente di male nel volersi mostrare, bisogna però capire quando lo si fa con libertà o perché una società te lo impone. Ci sarebbe da approfondire e il social purtroppo non ti permette di approfondire la complessità ed è per questo che preferisco sempre affrontare certi temi nelle scuole invece che su internet.

Diciamo poi che queste vicende esistevano già anche prima dei social, penso al caso delle ragazze dei Parioli, che erano andate a prostituirsi con degli uomini molto più grandi di loro per potersi permettere borse e scarpe firmate per raggiungere un certo status symbol.

Quella è la società capitalista, né più né meno, che ti fa pensare che in base a quanto tu hai e possiedi, sei più valevole. Allora sei disposto a tutto pur di avere certe cose. Sicuramente è un caso limite all’interno di una società alto-borghese, quella dei Parioli, che è altamente tossica, perché più potere si ha e più facile, di solito, è trascendere in abuso di potere e poi quelli che sono a tutti gli effetti casi di pedofilia.

Ti rigiro la domanda: cosa ne pensi del rendere legale la prostituzione?

Bisognerebbe mantenere il limite di età imposto dalla legge italiana, e cioè i diciotto anni. Al di sotto, si parla di pedopornografia o pedofilia.

Tra i termini che spieghi nel glossario in fondo al libro c’è anche il “dick pic”, con cui si intende l’invio di foto delle proprie parti intime, spesso utilizzate dai ragazzi sui social. Ne è stato protagonista anche il rapper Salmo non troppo tempo fa, che è seguito da centinaia di migliaia di giovani, anche ragazze. Come si fa a invertire la rotta?

Sì diciamo che Salmo anche nei suoi testi è sempre stato ben poco edulcorato, di un sessismo ben poco latente. Sicuramente, se io sento una sua canzone, essendo “imparata”, so riconoscere il sessismo. Ma persone molto giovani che ancora non hanno questa consapevolezza, prendono passivamente e acquisiscono questo modo di fare e di proporsi. Se avessimo un sistema culturale che ci fa capire che questo gesto deriva da una stereotipizzazione di genere, per cui l’uomo si sente quasi in dovere di fare quel che vuole, di disporre del corpo di una donna quando vuole, e di mandarle anche immagini che magari lei non vuole ricevere, allora capiremmo qualcosa in più. Ma non avendolo, ci ritroviamo ad avere il post di Radio Deejay sul fatto successo allo stadio Marassi, che per fare engagement chiedeva alla community se quel fatto era da ritenersi sessismo o goliardia. Non c’è da fare nessuna domanda, se continuiamo a mettere in dubbio queste cose pensando che sia un’opinione e non un problema culturale, allora continueremo anche a dire che sì, magari Salmo ha fatto bene oppure che son cose sue e può fare quel che vuole.

Ultima domanda, quest’anno si celebrano i 150 anni dalla nascita di Grazia Deledda, unica donna italiana a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura. Intanto ti chiedo se hai letto qualcosa di suo, e poi, dato che hai appena pubblicato un libro, qual è la situazione dell’editoria italiana oggi sul versante scrittrici?

Allora di Grazia Deledda lessi “Canne al vento”, tanti anni fa, un grande classico. La situazione dell’editoria è imbarazzante, o meglio: all’interno dell’editoria di settore, quindi studi di genere, cultura e società, le donne vanno molto forte, ma rimane una nicchia. Basti pensare al Premio Strega, vinto da quattro donne su tutte le edizioni. Culturalmente ci fidiamo più degli uomini, anch’io inconsapevolmente lo faccio. Oggi potevo scegliere tra tre libri e alla fine ho scelto quello di Domenico Starnone perché ne senti parlare di più, è tutto un sistema: sappiamo che gli uomini vendono di più allora puntiamo sugli uomini. Anche lì il capitalismo premia il maschio bianco cis etero abile. C’è da iniziare a riformulare le cose. Vorrei e spero che le classifiche inizino ad essere molto di più al femminile, ma non solo, so che devono uscire dei bei libri di alcuni amici, che sono attivisti ad esempio persone trans, non binarie, intersex, con disabilità. Vorrei che uscisse più narrativa al femminile, che al contrario oggi è il mondo maschile per eccellenza.

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