Quali rischi corrano le piccole comunità che sognano il riscatto attraverso il turismo? Antonio Cipriani, professione giornalista, è un raffinato intellettuale che da tempo ha deciso di abbandonare le città per riscoprire la lentezza del borgo. Oggi vive in un meraviglioso angolo della Toscana.

È stato il fondatore e l’anima del Giornale di Sardegna prima, della catena di quotidiani nazionali Epolis poi. Molto prima di Sergio Marchionne, che inventò il così detto paradigma della fabbrica piatta (“più stretto è il controllo, peggio funziona l’azienda, meno vincoli ci sono, meglio procede”) ha inventato il modello della redazione orizzontale. Dove prima c’era una piramide, con il direttore a fungere da monarca assoluto, Cipriani ha inventato la democrazia lineare: nel lavoro intellettuale, la sua teoria, tutti devono esprimere il proprio pensiero, anche l’ultimo degli arrivati: vince il più preparato, chi argomenta meglio, il più intelligente. Il ruolo che occupa non conta. Così il giornale diventava una Scuola di Atene, dove i responsabili partecipano attivamente alla creazione della Repubblica delle Idee.

Antonio, qual è la giusta ricetta per il rilancio dei borghi rurali?
“Camminando lungo le stradine del Sulcis, sospeso sul confine tra mare e cielo, in questi giorni di clamore mediatico, ho pensato a lungo alla risposta da darti. Fossi il sindaco di un paesino dell’entroterra, in Sardegna come in Toscana o in Abruzzo, metterei al primo posto il lavoro e il riconoscimento del lavoro come fondamento culturale della comunità. Non il lavoro portato in dote da qualcuno, né quello votato al cemento facile e distruttivo, ma quello che può nascere dalla cooperazione e della cultura. Dalla conoscenza del territorio, della sua storia, dei saperi e delle differenze, per rendere ogni azione legata al lavoro un atto politico e culturale: rivendicazione di differenze e nello stesso tempo capacità di aprirsi al futuro, alle cose nuove, all’incontro con il diverso da noi. A un incontro che diventa dono”.

Più che un principio politico, sembra un brocardo etico.
“È così. Senza amore per il territorio, senza consapevolezza del proprio ruolo di cittadini attivi, sapienza e capacità di inventare, la comunità non ha senso. È in balia della sorte e della speranza che il turismo poggi lo sguardo e porti risorse, piegando storia e bellezza, passioni e amori, valori e umanità alla realizzazione plastica di un immaginario indotto, di un processo di spoliazione ulteriore, di svendita al migliore offerente. Ecco perché il lavoro è riscatto civile delle piccole comunità. E cultura profonda, che possa agire nel coltivare, nel tempo e nel bene comune. Per difendere l’ambiente e i boschi, per realizzare le cose essenziali per vivere semplicemente, per mettere insieme teste e risorse e creare indipendenza dal conformismo, creare relazioni paritarie e apertura, non chiusura mentale. Che poi – detto tra noi – è l’unico modo per attrarre viaggiatori e curiosi, innamorati del coraggio, investitori che amano il rispetto e non cercano un format. Per agire nella tradizione rigenerandola costantemente, non museificandola né rendendola penoso folklore in maschera per turismo di massa”.

Non c’è alternativa?
“L’alternativa al lavoro per i giovani è la fuga o la resa. Quali ipotesi di lavoro costruire? Non esiste una ricetta uguale per tutti, dobbiamo uscire dal conformismo, spesso mediatico, che rende tutto un format di successo o niente. Ogni territorio ha la sua vocazione e potenzialità. E in questi tempi frettolosi serve il tempo per coltivare cultura, con cura e attenzione. Non basta seminare qualche idea o sperare che un guru abbia una soluzione. Occorre visione politica. Ed essere sovversivi, rovesciando ciò che sembra intangibile e immutabile. Insorgendo, perché il contrario di insorgere è stare fermi e seduti al proprio posto. Quindi, citando Simone Weil, fare del pensiero un’azione. Non limitarsi alle azioni indotte dalla spettacolarizzazione della società, ma ponendo il pensiero critico al centro del discorso: farne un agire civile”.

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