“Conversazioni con i profeti” è una rubrica che nasce da una personale curiosità e dal piacere per il dialogo e la conoscenza. Nasce anche per contrastare una mentalità pericolosa: la radicalizzazione del concetto di uguaglianza, il rifugio in una ideologia che vorrebbe che tutti fossimo parimenti meritevoli di occupare qualsiasi posto e di ricoprire qualsiasi ruolo. Le differenze sono importanti, sono un arricchimento, meritano rispetto; una comunità sana riconosce i “più bravi” e li premia perché sono stimolo per gli altri e risorsa per tutti. Purtroppo questo non sempre avviene.

“Nemo propheta in patria”, la frase di Gesù riportata nei vangeli, nel tempo ha perso il significato originario, è stata banalizzata, ha perso la sua profondità spirituale. Nella sua accezione attuale contiene un concetto detestabile ma vero: difficilmente si riconoscono i pregi e la straordinarietà dei nostri conterranei.

Come spiegava Nereide Rudas, in Sardegna la situazione è ancora più grave a causa dell’invidia. C‘è un continuo tentativo di catalogare le persone a seconda delle convenienze e dell’età. Gli anziani vanno rottamati e i giovani non possono pretendere di andare avanti velocemente, l’esperienza diventa un handicap non un valore prezioso; l’entusiasmo e le energie dei giovani sono vanificati. Lo scambio fra le generazioni è ridotto al minimo. Si perde così la immensa ricchezza dell’umanità che, se esaminata con lucidità, offre perle a tutte le età.

CHI è MATTEO PORRU
Matteo Porru è uno di quelli che spicca, non solo nel mondo social, ma anche in quello reale: scrittore sin dall’età di 12 anni, ha già un’ottima produzione letteraria, con il racconto “Talismani” vince nel 2019 il Campiello Giovani. Un mese fa ha ottenuto il contratto con una prestigiosa casa editrice: la Garzanti.

Un giovane scrittore infaticabile: libri, racconti, interviste, programmi, spettacoli, rassegne. Un vulcano di idee. Guardando alcuni video mi ha colpito la sua straordinaria e precoce proprietà di linguaggio, le conoscenze, la sua brillante curiosità, l’evidente grado di maturità, uniti a una spontanea simpatia che esprime con battute argute, con un sorriso accattivante e risate contagiose.

Ho capito che poterlo conoscere mi avrebbe portato in un altro pianeta e l’aspetto che mi attraeva di più era che la navicella spaziale partiva da Cagliari, la mia città.

Quando l’ho incontrato, ho avuto la conferma: non solo intelligente e simpatico, anche bellino da morire.

Matteo è riuscito a sublimare la sua malattia e grazie a quella conosce la fortuna e la gioia di vivere. Davvero una rarità in una società in cui il disagio giovanile è diventato un problema grave, i giovani fanno fatica a trovare una direzione e un senso, Matteo è una risorsa e non ci può lasciare indifferenti.

Il passaggio dall’infanzia alla età adulta è sempre stato ostico per i giovani. La ricerca della propria identità e del proprio destino per molti è un processo lungo e tormentato. Matteo, invece, ha già le idee chiare: sa di essere un privilegiato e per questo non sta mai fermo, ha una agenda fittissima, studia e progetta giorno e notte. Si guadagna le sue fortune, insomma è un giovane speciale che non recrimina: ha capito che la vita è fatta di scelte e rinunzie e che ogni conquista costa fatica. Non ha bisogno di tatuaggi per distinguersi dagli altri e nemmeno per omologarsi, ha una personalità ben precisa ed è Matteo, prima ancora che Matteo Porru, come lui stesso mi ha spiegato molto bene. Sono sicura che il suo esempio possa essere d’aiuto per altri giovani e per l’intera comunità cagliaritana e sarda.

MALATTIA
“ Il dolore è come la plastilina: puoi dargli la forma che vuoi”

Da poco ho letto il post che hai scritto sui vaccini e parli della patologia che ti ha colpito da bambino, ti pesa parlare dell’esperienza?

No, io sono una di quelle persone che pensa sia tutta vita. Credo che nel bene e nel male ci sia una armonia, un senso. Senza certe esperienze non sarei quello che sono oggi.

A che punto del tuo percorso di vita hai capito che la scrittura poteva esserti utile?

Ho iniziato a scrivere quando avevo dodici anni.

In ospedale?

Anche. In ospedale la vita è sospesa. È una situazione che aiuta a pensare.

Se non fossi stato malato avresti scritto?

No. Io sono sicuro che la malattia mi abbia cambiato, che mi abbia segnato, quella esperienza. Ora uso una frase da intervista: la mia scrittura nasce dal dolore, dal voler scomparire, l’azione che il dolore ha su di te. A volte l’orrore più grande se messo su carta diventa meno grave e ha una bellezza che altrimenti non vedresti, non capiresti. Il dolore è come la plastilina: puoi dargli la forma che vuoi. La bellezza della scrittura è riuscire a dare una forma al dolore, o a qualunque altra emozione.

IL SUCCESSO
“Scrivere è una scommessa, alla fine hai un debito con te stesso

Dopo The mission, il tuo esordio, hai capito che quella era la tua vita?

Quando è uscito ed è stato presentato e ho visto tutto ciò che ruota intorno al libro, per me è stata la prova che sarebbe stata la mia vita. Avevo sedici anni ma in quel momento io ho scelto.

Da come lo dici sembra che ti piaccia la notorietà!

Scrivere un libro è pesante, occupa tanto tempo, è una scommessa, alla fine hai anche un debito con te stesso, per tutto ciò a cui hai rinunciato. Ti sei privato di tante cose mentre scrivevi e quando vai a una presentazione e vedi le persone che stanno lì perché credono in te, nella tua storia, è come se si chiudesse un cerchio.

Non ti è mai parso di portare una maschera?

No, perché sono comunque sempre me stesso ma una leggera pellicola mi dà quel minimo senso di distacco. Con le persone cerco sempre di far trasparire non il dolore che provo ma il bene che vedo Se ci riesco. In un romanzo, è un’altra storia.

Hai vinto un premio prestigioso.

Ho vinto il Campiello Giovani nel 2019.

Preferiresti tornare indietro, sarebbe più facile?

No, no è che io sono il Matteo autore, quello del premio, delle presentazioni, ma soprattutto sono il figlio, il fratello, l’amico. La popolarità devi gestirla bene, può dare alla testa. Una lieve pellicola trasparente separa le due figure.

THE MISSION
“Quando tu senti soffrire un bambino soffri con lui”.

Alessio di “ The mission”, il tuo primo libro, sei tu?

No, ma in Alessio c’è sicuramente una parte di me. Il bambino non soffre come un adulto, soffre in un modo suo, più diretto, più empatico, quando tu senti un bambino soffrire soffri con lui. Alessio ha vissuto tutto il teatrino che un bambino vive in un reparto di ospedale.

E tu hai vissuto alcuni degli episodi che racconti? Quello delle arance, delle farfalle?

Li ho vissuti e sono stati momenti molto molto particolari. Perché i piccoli soffrono diversamente rispetto ai grandi. È ovvio che i medici facciano di tutto per non far capire la gravità della situazione ma un bambino la capisce. Nel libro, per esempio, i medici raccontano l’anestesia come un gioco ma in realtà è l’opposto, è un momento terribile per un bambino.

Quindi, insomma, una parte di ciò che vive il protagonista è vera, l’altra è di fantasia…

Esatto: una parte è vera, l’altra è proprio romanzata, il che ti permette anche di renderla più carica.

Senti: la storia di Alice e Ludovica è vera?

No, la storia di Alice e Ludovica è completamente inventata.

DIVERTIMENTI

Matteo, ora, tu come ti diverti? Hai vent’anni…

In discoteca muoio. Vado in barca a vela ma non è un divertimento per me: mi rilassa. Se mi voglio divertire, metto ad oltranza uno spettacolo di Enrico Brignano o degli sketch comici.

Non ti interessa lo sport?

Mi piace guardarlo ma non praticarlo. Ho nuotato per anni, ma perché ero obbligato.

DIO
“Ci credo perché sono ancora qui”

Matteo, a proposito di Dio? Tu credi?

Io credo, ho avuto una educazione cattolica, la mia è una fede dubbiosa e per questo viva. Prego in modo molto intimo.

Hai mai avuto dei segni?

No, mai, io ci credo perché ci credo. Ci credo perché sono ancora qua.

A me è capitato quando sono stata male, per carità, nulla in confronto a te, di interiorizzare Dio, di sentirlo, a te è capitato?

No, io stando male l’ho sentito meno.

La tua famiglia è cattolica?

Sì, soprattutto i miei nonni. Io personalmente credo che l’idea di educazione cattolica sia la cosa più bella che abbia fatto la chiesa in Occidente. Ideali come l’uguaglianza, la fratellanza sono ideali molto puri. Difficili da ritrovare oggi.

SCRIVERE E LEGGERE
“Prima la mia tana poi la mia torcia”

Mi incuriosiva una cosa, come scrivi, scrivi di getto?

Scrivo molto lentamente. Io butto giù una frase e devo capire se ogni parola scritta ha il suono che voglio, il ritmo, la semplicità e l’efficacia che voglio.

Nel tuo terzo libro “Madre ombra” parli di rapporti matrimoniali, questo mi ha lasciato perplessa, come facevi a diciotto anni a “sapere” certe cose?

Tornando alla questione della plastilina, riesco a dare forma alle cose, al dolore di una ragazzina, ai sentimenti degli adulti. Io osservo, lo scrittore non scrive, lo scrittore rielabora.

Eh, ma si deve conoscere per scrivere.

Ti ripeto: io ascolto, osservo e rielaboro. Per esempio, c’è una signora, qua, adesso, a te magari non dice nulla, a me invece fa pensare. Mi faccio domande, mi chiedo perché ha fretta di andare via e dove stia andando. E se tu ti fai tutte queste domande poi costruisci. Ed è fatta.

Ma non vedendo, dovendo immaginare cose che non conosci come fai? Attraverso le tue letture?

No. Io fino ai quattordici anni sono stato un pessimo lettore, poi ho scoperto il libro della vita, Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey, da lì son partito.

Hai letto la Recherche?

Certo, è uno dei capolavori assoluti.

Come si può capire la Recherche a vent’anni?

Capisci la Recherche se capisci il valore e il movimento del tempo e dell’identità.

Proust era un uomo molto malato, hai trovato delle analogie con te?

No, ma mi piace leggere autori giovani che hanno avuto esperienze toste, di oggi o di ieri. Mi piacciono gli autori profondi per l’età che avevano. Adoro Rimbaud, uno dei maledetti.

Ti piace la musica?

Urca! Io vivrei di musica jazz e blues, ma ascolto di tutto.

Un altro libro, un classico che ti piace molto?

L’Assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie.

C’è qualcuno che ti ha condotto alla lettura?

No, ed è stata la mia salvezza. Entro in libreria e cerco e il libro si trova.

Però mi ha colpito un fatto, mi hai detto che fino a 14 anni leggevi poco, non è che la voglia ti è venuta anche razionalmente perché dovevi fare lo scrittore?

No, io ho iniziato a leggere per me stesso, per curarmi, per sentirmi meno solo, per nascondermi. È stata prima la mia tana, poi la mia torcia.

Progetti per il futuro?

Una marea. Ma non posso dire quali. Stanno per uscire delle bombe, posso dirti solo quello.

Ma dove lo trovi il tempo?

Di notte… fino alle 2, alle 3, poi crollo, fisicamente. E la mattina mi sveglio presto. Dormo bene ma dormo poco.

I GIOVANI
“Hanno rivoluzionato il concetto di contatto”

Oggi più che mai, soprattutto dopo il Covid, c’è il problema del disagio giovanile, cosa ne pensi, quali possono essere gli strumenti per fronteggiarlo?

Io sono uno di quelli che si è diplomato durante il primo anno del Covid (liceo classico Dettori, ndr), ci siamo trovati da un giorno all’altro in DAD, senza nessuno che dicesse niente, la situazione era tragica. Ci siamo trovati con mille fragilità, mille paure, ricordo a marzo avevamo proprio paura fisica, sembrava di essere in un film apocalittico americano, poi piano piano ci siamo lasciati andare. Di fatto si è spento tutto. Molti non hanno colto il fatto che i ragazzi hanno avuto un merito gigantesco, perché i giovani, soprattutto i nativi digitali, hanno rivoluzionato il concetto di contatto. Io non ero presente a scuola, non potevo vedere una mia amica, ma la videochiamavo e quella è una forma di contatto, la grandezza dei ragazzi è stata non fermarsi. Creare porte, non muri.

Forse è più forte di loro.

Questo non lo so.

E il disagio?

Ti dico una cosa e vorrei che la scrivessi. Io odio generalizzare quando si parla di certe tematiche perché certe cose si possono solo individualizzare. Quindi, parlo per me: io sono un ragazzo di vent’anni e non provo alcun tipo di disagio giovanile, ma è anche vero che ho vissuto certe esperienze, e di sicuro il periodo Covid non è stato il periodo più brutto per me, a differenza di molti miei amici. Di sicuro questi mesi hanno ricordato a tutti noi, indistintamente, quanto sia preziosa la vita.
Io ho delle amiche con figli della tua età e mi dicono che i figli non hanno mai studiato come nel periodo del Covid.
Per questo, e per molto altro, ti dico: non generalizziamo.

Ma se prendiamo ad esempio Cagliari, i giovani stanno esplodendo, sono violenti, cosa sta succedendo?

Sarò onesto e diretto: non lo so! Io ho un fratello più piccolo, è molto rilassato, tranquillo. Però io non ho il metro di misura per dirti quanto sia vero. Anche perché mio fratello frequenta un certo tipo di ambiente. Ma vai a vedere in giro ragazzini, anche più piccoli di mio fratello, e ti viene la pelle d’oca.

La famiglia è tutto in questi casi?

Non solo la famiglia, anche le persone con cui stai, gli ambienti che frequentano quelle persone. La scuola è molto importante in questi contesti ma a volte tende a ghettizzare.

Quando ti confronti con i tuoi coetanei, nella tua vita quotidiana, cosa ne esce?

Ci arricchiamo tutti dal confronto. Penso ci sia chi mi apprezza e chi meno, c’è un percentuale di loro a cui sto simpatico e altri no, com’è normale che sia. Con alcuni posso condividere, altri mi sembra che mi vedano male. Altre volte sento totale indifferenza.

Invidia?

Forse, ma anche quella bisogna saperla convertire.

Meglio l’invidia che l’indifferenza, sentire la parola indifferenza mi ha ghiacciato.

Ci tengo a dire che in questi anni ho incontrato e sto incontrando i ragazzi nelle scuole, i ragazzi di periferia e di centro città, di istituti tecnici e di licei, dalle elementari alle università, e ho avuto sempre ottimi riscontri. Ho parlato con centinaia di giovani e sono rimasti seduti ad ascoltarmi anche più di quanto avrei fatto io al posto loro.

Qual è il canale che usi per far capire quello che hai dentro tu?

Le mie storie, la mia vita.

Tu riesci a usare il loro linguaggio?

Certo che ci riesco, perché è anche il mio. Nella stragrande maggioranza delle volte del libro neanche ne parlo, mi siedo lì e parlo con loro.

C’è qualcosa in cui ti senti uguale ai tuoi coetanei? Per esempio, con le ragazze?

No, non mai dato un bacio, non ho mai fatto l’amore. Con le donne sono una frana.

Non è che su questo specifico punto non sei sicuro di te stesso? Perché non le inviti a prendere un caffè?

Mah. Non cercano questo. Mi vedono come un coso che pesa cinquanta chili bagnato.

Ma va! Lo vedi che è una insicurezza che hai?

Ci penso e ti dico.

Per quanto mi riguarda io sono già innamorata.

Enrica Anedda Endrich
Ph: Stefano Anedda

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