Pietro Stefano Mele ha undici anni ed è un ragazzino qualsiasi, che ancora non sa come un inciampo, nel senso letterale del termine, possa cambiargli la vita. Quando la madre scivola e sbatte la testa su uno scoglio, si confronta per la prima volta con il senso di colpa. Un sentimento che lo accompagna giorno dopo giorno nella sua realtà, fatta di un padre, Seb, che lo abbandona nel piccolo borgo di San Leonardo de Siete Fuentes, a casa di nonna Sircana, una sconosciuta per lui. Da qui il ragazzino si fa le ossa, prima a contatto con la natura incontaminata, a volte benevola a volte crudele, poi con la città che lo porterà a una vera e propria svolta, dopo un passaggio, decisivo, attraverso il mare.

A sedici anni dal suo esordio letterario “Vita e morte di Ludico Lauter” (Il Maestrale), vincitore del Premio Dessì, Alessandro De Roma torna alla ribalta con quello che può essere definito il suo grande classico: “Grande terra sommersa” (Fangango Libri). Qui l’autore, originario di Ghilarza, mette tutto se stesso nella formazione del piccolo protagonista che attraversa la Sardegna, quella dei boschi del Montiferru e quella del mare cristallino dell’Ogliastra, per poi finire a Cagliari, dove le luci del porto si affacciano su un orizzonte pieno di futuro.

Partiamo dal tuo ultimo libro, che racchiude in sé tutte le sfaccettature del romanzo di formazione, d’avventura e psicologico. Si può dire che sei arrivato a scrivere il tuo grande classico?

Diciamo che ci ho provato. Lo spirito è un po’ quello. Dopo alcuni romanzi molto intimisti con pochi personaggi e nei quali la mia prima preoccupazione principale era l’intensità delle scene, ho avuto voglia di tornare alle mie origini e a un romanzo come “Vita e morte di Ludovico Lauter”, una storia di ampio respiro e nella quale la costruzione narrativa avesse un ruolo preponderante; ma magari con l’esperienza e la maggiore attenzione allo stile che derivano da tutti questi anni di scrittura. Volevo soprattutto che la storia fosse appassionante: provare insomma a scrivere uno di quei romanzi in cui ci si attacca alle pagine per sapere come va a finire. L’obiettivo era esattamente tentare di scrivere il libro che avevo voglia di leggere.

Tra i primi personaggi che i lettori incontrano c’è quello della nonna del protagonista, Mariangela Sircana, che inizialmente ricorda Miss Havisham di “Grandi speranze” di Dickens. È così? Quali sono gli immaginari letterari che hanno influenzato la scrittura di questo romanzo?

È una somiglianza che mi hanno fatto notare. In particolare la mia cara amica Milena Agus che adora Dickens, ma lei si riferiva soprattutto al romanzo David Copperfield. In realtà credo che in questo mio libro sia confluita un po’ tutta la mia storia di lettore, proprio perché l’intenzione era omaggiare i libri che mi hanno appassionato, quelli che leggi sotto le coperte in una notte d’inverno. Ma nel caso specifico, la voglia di scrivere un romanzo di questo tipo mi è venuta dopo la lettura del “Cardellino” di Donna Tartt. Anche lì c’è una vicenda dolorosa legata alla morte della madre e il protagonista è un ragazzino. Le altre somiglianze forse non sono tante, però quel che desideravo era scrivere un libro che in qualche modo ne seguisse la scia. Una storia alla Dickens, sì. Si potrebbe dire così. Ovviamente con tutta la distanza che separa inevitabilmente un immenso scrittore come lui dai miei piccoli percorsi letterari.

Il confronto con la natura è costante in questa storia. È molto forte la connessione spirituale con i boschi dell’Oristanese, penso a tutta l’area del Montiferru. Che rapporto hai con la spiritualità?

Sono un po’ come il mio personaggio Pietro Stefano: adoro gli alberi. Forse c’è in me un po’ di panteismo. Credo che il rispetto per ciò che ci circonda, e quindi ci nutre e ci sostiene, sia necessario per crescere e godere di ogni esperienza della vita. Vivere in un conflitto perenne con la natura non può che portare alla tristezza. E poi il territorio del Montiferru è nel mio cuore fin dall’infanzia: ci sono cresciuto! E vederli devastati nei recenti incendi è stato terribile. Ho partecipato a un bellissimo progetto cinematografico, del quale ancora preferisco non dire nulla, che rende omaggio proprio a quei luoghi, che spero tornino al più presto ad essere meravigliosi.

D’altra parte è ben presente anche la “natura matrigna”, con riferimento all’acqua che ci inghiotte e ci mette nelle sue mani decidendo in tutto e per tutto la nostra sorte. In questo senso mi viene in mente “Passavamo sulla terra leggeri” di Sergio Atzeni.

Libro magnifico, che per altro è stato appena ripubblicato. La natura fa quel che deve fare e certo non perdona né i nostri errori né le nostre disattenzioni. Non è buona e non è cattiva. Ma accettare il prezzo della sua indifferenza è la vera sfida: saper tornare a galla dopo tutto ciò che ci può accadere o anche semplicemente accettare la sconfitta e saper vivere anche nel dolore. Perché perfino nei momenti più bui, la natura che ci toglie tutto, può regalare una speranza: quando non lo fa è perché siamo noi stessi a rinunciare alla sfida della rinascita, che è sempre faticosa e richiede umiltà. Tutta la vita è faticosa, ed è per questo che si ha sempre bisogno degli altri per riprendere i cammini interrotti.

Cagliari è tra i luoghi protagonisti del romanzo. Fai riferimento al Polo Sa Duchessa, dove hai conseguito la tua laurea in Filosofia e Storia. Quali sono i tratti di questa città che ti ispirano maggiormente nella scrittura delle tue storie?

Con Cagliari è stato amore a prima vista nel 1989, quando ci sono arrivato da Ghilarza per iniziare i miei studi universitari. Amo quasi tutto della città: gli spazi liberi, la natura in mezzo alle case, i colli, i paesaggi che cambiano continuamente, i luoghi selvaggi che resistono in certi angoli, e i colori. Veder ogni giorno la nave che lascia il porto è come un occhio gettato sul mondo, che si chiude per la notte e si riapre al mattino, accogliendo nuovi forestieri. Una semplice passeggiata per Cagliari mi regala grandi gioie: ogni svolta diventa una piega inattesa degli eventi. Io sono stato un abitante del quartiere di Stampace alto, per anni. Zona via Santa Restituta. E ancora faccio una gran fatica a non ambientare almeno una parte dei miei romanzi in questa città: solo in due su sette Cagliari non è presente in alcun modo. So che è un amore che durerà per tutta la mia vita.

A proposito di università, in questo romanzo c’è anche la rivincita del fallimento come punto di ripartenza. Un messaggio molto forte in un’epoca dove la performatività è tutto. Come la vedi?

Sono felice che lo abbia messo in evidenza. Questo romanzo è la storia di come i fallimenti non siano mai definitivi e assoluti. Pietro Stefano si aggrappa ad ogni nuova occasione per mettersi in pericolo o almeno alla prova. Una volta che sperimenti il fallimento, e impari ad accettarlo, sei per sempre libero di fallire e quindi libero di vivere. È una lezione difficilissima da imparare però, se la impari, ti cambia l’esistenza.

La “Grande terra sommersa” è tutto quel che ci portiamo dentro e non riusciamo ad esorcizzare. Il senso di colpa del protagonista Stefano Mele nasce da qui e riesce a superarlo attraverso il perdono. È possibile anche in una terra “pagana” come la Sardegna?

Forse un po’ di esercizio di perdono ci servirebbe davvero. Perdonare è una dimostrazione di forza, anche se pochi riescono a vederla come tale. Spesso è vissuta piuttosto come una manifestazione di follia. Ma perdonare se stessi è la sfida più difficile: non si tratta mai di assolversi, ma di accettarsi come individui impegnati in una crescita che, quando si sollevano dalle cadute, si scoprono un po’ più forti, proprio perché imparano ad accettare il proprio passo nuovo: zoppicante ma coraggioso.

Leggi le altre notizie su www.cagliaripad.it