(Foto credit: Teatro Massimo di Cagliari)

Duecento repliche nei teatri di tutta Italia per la trasposizione de “Il malato immaginario” di Molière. Un’opera che ancora oggi, nonostante sia stata pubblicata per la prima volta nel 1673, grida a tutti la sua straordinaria attualità.

Di questo ne è certo l’attore e comico pugliese, Emilio Solfrizzi, che ha interpretato il protagonista Argante sul palco del Teatro Massimo di Cagliari per l’ultima tappa della tournée diretta da Guglielmo Ferro.

“Questo ritorno a Cagliari è doppiamente felice”, dice Solfrizzi durante l’incontro con il pubblico, moderato dallo scrittore Matteo Porru, tenutosi giovedì 20 aprile nel foyer del teatro cagliaritano insieme a tutta la compagnia. “Tutto il merito è di Molière se riesce ad essere così moderno – continua l’attore -. Il 1673 sembra lontano ma non lo è perché parla a noi come se fosse stato scritto da pochissimo. Argante, il protagonista, è un uomo in fuga dalla vita. Vive nel terrore, nella paura di ammalarsi, e questo ci riporta tutti al periodo della pandemia, che ha creato diversi Argante”. E poi si rivolge ai presenti in sala: “Quanti di noi dopo la pandemia non sono più usciti di casa? Sconfiggere la paura è la sfida di quest’opera. Anche a teatro abbiamo vissuto tempi difficili”.

E proprio a questo proposito, Solfrizzi si sofferma sul cosa si sia andato a perdere proprio durante il periodo di lockdown e in quello immediatamente successivo, quando ancora vigevano le restrizioni anti-contagio. “Andare a teatro è un’esperienza mistica – dice l’attore -. Uno spettacolo ha bisogno che nulla concretizzi quest’esperienza. Dev’esserci un tutt’uno tra attori e spettatori, lo stesso respiro. E questo non è possibile con una maschera sul viso. Quando noi abbiamo considerato gli spettatori come degli ‘eroi’ ci riferivamo a tutti coloro che volevano vincere questa paura”.

Ma lui ci è riuscito? “Faccio difficoltà a rispondere a questa domanda – dice Solfrizzi – perché credo che questa esperienza si possa raccontare in due modi: o con la tragedia o con la commedia. La pandemia è stata una guerra. Ho diversi amici che sono diventati indigenti. Per noi della cultura è stato un momento drammatico, facevamo la mensa per chi non poteva permetterselo. Non sapevamo se e quando sarebbe finito. Ma ho avuto la fortuna di godermi la famiglia”. Di una cosa è sicuro l’attore: “Ci dicono che ne siamo venuti fuori, ma io credo che non siamo venuti fuori da un bel niente. La pandemia è lì, viviamo il presente in maniera diversa, senza contare che ci sono state delle fratture nella nostra società: c’era chi poteva permettersi di continuare ad avere uno stipendio e chi invece ha perso il lavoro”.

“Per me – continua Solfrizzi – è un evento che non ha accadimenti, è come se fossi stato in coma. Devo ancora metabolizzarlo. I miei figli avevano la paura negli occhi perché la vedevano nei miei e per questo io mi potevo permettere di non averne”.

Un sentimento che l’attore ha cercato di “esorcizzare” sul palcoscenico nei panni di Argante, “un personaggio gigantesco”, come lo definisce l’attore. “Ci sono tantissimi modi per interpretarlo. L’unica cosa da fare è stata buttarsi”. E a sentire gli applausi ricevuti a fine spettacolo, è andata molto bene.

Si finisce con una domanda dal pubblico, in riferimento ai suoi grandi successi cinematografici e televisivi che lo hanno reso uno dei volti più noti del grande e piccolo schermo: dai film con Carlo Vanzina al debutto in Rai con la fiction “Sei forte, maestro” fino ai biopic su Giovanni Falcone e Anna Frank. “Noi ci innamoriamo dei personaggi che interpretiamo, li prendiamo e poi li lasciamo – dice Solfrizzi -. A questo proposito adoro il sarcasmo di persone come Vittorio Gassman, che ti insegna che non bisogna credere troppo in quello che fai. Il nostro – conclude – è un mestiere che dev’essere di ascolto e l’ascolto deve essere vergine”.

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