“Per me è come un padre”. Così Francesco Cossiga si sarebbe rivolto al poliziotto incaricato di guidare le indagini sul rapimento di Aldo Moro, avvenuto la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani a Roma.

La narrazione è diretta dal mito Marco Bellocchio nella sua ultima fatica “Esterno Notte”, andata in onda in anteprima ieri sera su Rai 1 per proseguire in altri due appuntamenti con un cast d’eccezione: da Toni Servillo nei panni di Papa Paolo VI a Margherita Buy in Eleonora Chiavarelli, moglie di Aldo Moro, fino al nostrano Jacopo Cullin che fa le veci del cagliaritano Luigi Zanda, all’epoca segretario-portavoce di Cossiga.

A interpretare l’esponente politico sassarese, allora ministro degli Interni, è il magistrale Fausto Russo Alesi. È un Cossiga tormentato, fragile e a tratti “allucinato”, quello dei giorni del rapimento del fautore, insieme a Enrico Berlinguer, del Compromesso storico, che ha il volto incredibile di Fabrizio Gifuni.

“Dobbiamo salvare Aldo Moro”. Inequivocabile lo sforzo a trecentosessanta gradi che Cossiga volle compiere per riportare a casa il presidente della Democrazia Cristiana nel quarto governo Andreotti. Il politico sassarese creò rapidamente due comitati di crisi, uno ufficiale e uno ristretto, per trovare una soluzione nel più breve tempo possibile. Molti fra i componenti di entrambi i comitati sarebbero in seguito risultati iscritti alla P2, di cui faceva parte lo stesso Licio Gelli sotto il falso nome di ingegner Luciani. Tra i membri anche lo psichiatra e criminologo Franco Ferracuti.

Cossiga richiese e ottenne l’intervento di uno specialista arrivato direttamente dagli Usa, il professor Steve Pieczenik, il quale partecipò ad una parte dei lavori. Stando a quanto raccontato da Cossiga e dallo stesso Pieczenik, il piano iniziale era quello di inscenare una finta apertura alla trattativa, per ottenere più tempo e cercare di far uscire allo scoperto le Brigate Rosse.

Ma la verità è che in molti non erano interessati a salvare l’onorevole Moro. In una prima intervista rilasciata a Panorama il 13 agosto 1994, fu proprio Pieczenik a rivelarlo: “C’era una falla, e di entità gravissima. Un giorno lo dissi a Cossiga, senza mezzi termini. ‘C’è un’infiltrazione dall’alto, da molto in alto’. ‘Sì’ rispose lui ‘lo so. Da molto in alto’. Ma da quanto in alto non lo sapeva, o forse non lo voleva dire. Così decisi di restringere il numero dei partecipanti alle riunioni, ma la falla continuava ad allargarsi, tanto che alla fine ci ritrovammo solo in due. Cossiga e io, ma la falla non accennò a richiudersi”.

Cossiga non smentì quanto detto, ma parlò di “cattivo gusto”.

In una seconda intervista, ben ventotto anni dopo i fatti – era il 2006 – ancora una volta Pieczenik rivelò altri dettagli sul caso: “Capii subito quali erano le volontà degli attori in campo: la destra voleva la morte di Aldo Moro, le Brigate Rosse lo volevano vivo, mentre il Partito Comunista, data la sua posizione di fermezza politica, non desiderava trattare. Francesco Cossiga, da parte sua, lo voleva sano e salvo, ma molte forze all’interno del paese avevano programmi nettamente diversi, il che creava un disturbo, un’interferenza molto forte nelle decisioni prese ai massimi vertici”.

Lo stesso presidente del Consiglio Andreotti non fu mai intenzionato, almeno ufficialmente, a trattare con i sequestratori di Moro, che durante la sua prigionia scrisse per ben due volte a Cossiga, tra i suoi uomini più fedeli e sinceramente affezionati.

La prima lettera fu recapitata, mentre la seconda non arrivò mai al destinatario.

“Caro Francesco”, inizia la prima missiva, “ti scrivo in modo riservato, perché tu e gli amici con alla testa il Presidente del Consiglio (informato ovviamente il Presidente della Repubblica) possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori. Pensare dunque sino in fondo, prima che si crei una situazione emotiva e irrazionale”. Nella seconda lettera, l’esponente democristiano, inconsapevole che la precedente missiva era stata pubblicata non da Cossiga ma dagli stessi brigatisti, scriveva preoccupato: “Caro Cossiga, torno su un argomento già noto e che voi mi avete implicitamente ed esplicitamente respinto. Eppure esso politicamente esiste e sarebbe grave errore ritenere che, essendo esso pesante e difficile, si possa fare come se non esistesse…Vorrei pregarti che, almeno su quel che ti ho scritto, vi fosse, a differenza delle altre volte, riservatezza. Perché fare pubblicità su tutto?”.

Ma per tutto il periodo della sua detenzione, su consiglio anche del team a cui si stava affidando, Cossiga considerò questi scritti delle “lettere non moralmente autentiche”. Era una strategia che puntava a indebolire i sequestratori.

Poi il tragico epilogo. Il 9 maggio 1978 fu fatto ritrovare il cadavere dell’onorevole Moro a bordo di una Renault 4 rossa in via Caetani, a Roma.

Cossiga non lasciò spazio a ripensamenti e si dimise dagli Interni l’11 maggio seguente. “Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle”, disse in un’intervista al giornalista Paolo Guzzanti, “è per questo: perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto, perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro”.

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