Contro la violenza sulle donne, la Sardegna può vantare un unicum nella storia medievale italiana. È il caso della giudicessa Eleonora d’Arborea, che promulgò e fece rispettare quella che può essere considerata la prima legge a tutela del genere femminile.
La “Carta de logu”, infatti, scritta dal padre Mariano IV d’Arborea, venne aggiornata e imposta proprio dalla regnante in tutto il territorio dell’Oristanese che governò dal 1383 al 1403. Si trattava di una raccolta di leggi che regolava il codice penale e civile del suo regno, dove venne inserita anche una norma contro lo stupro che non ebbe eguali in nessun territorio italiano dell’epoca.
Una norma che la stessa aveva a cuore, avendo vissuto in prima persona le ingiustizie di un sistema patriarcale che le donne erano costrette a subire già da tempi non sospetti. Con l’uccisione del fratello, infatti, la giovane Eleonora spinse affinché il primogenito fosse eletto giudice. Così scrisse al re d’Aragona, Pietro IV, per convincerlo a conferire la carica a suo figlio, ma il sovrano, intimorito dalle ambizioni di potere della donna, prese in ostaggio il marito Brancaleone che era stato inviato a trattare. Di tutta risposta, lei tornò a Oristano, punì i congiurati e, seguendo l’antico diritto regio sardo secondo cui alle donne era consentito salire al potere in mancanza di eredi maschi, si autoproclamò giudicessa di Arborea.
Precisamente, sono due i riferimenti della “Carta de logu” dov’è possibile scorgere una novità assoluta nel campo del diritto delle donne.
Al capitolo XXI, Eleonora d’Arborea si occupa dei casi in cui l’uomo usa la violenza nei confronti di una donna. Se il reato veniva perpetrato su una donna maritata, o comunque fidanzata o addirittura illibata, l’aggressore era punito con l’ammenda di cinquecento lire, da versare entro il quindicesimo giorno a decorrere dalla data del giudizio, pena l’amputazione di un piede.
Lo stesso capitolo prevedeva, per l’uomo che avesse usato violenza nei confronti di una donna nubile, un’ammenda di duecento lire, con l’obbligo di prendere la donna per moglie, ma solo nel caso in cui anche lei fosse consenziente. In caso contrario scattava l’obbligo di farla maritare con un altro uomo di suo gradimento; fallito anche questo tentativo, era costretto a subire l’amputazione di un piede. Le stesse pene erano applicate nel caso di violenze subite da una donna in stato di verginità.
Il secondo riferimento, invece, è trattato nel capitolo XXII. Qui la giudicessa comandava che nel caso in cui l’uomo fosse entrato in casa di una donna maritata, senza peraltro avere con la stessa un rapporto carnale, dovesse pagare un’ammenda di cento lire e, non pagandola entro i fatidici quindici giorni dal giudizio, avrebbe subito l’amputazione di un’orecchia.
Norme del tutto rivoluzionarie dato il contesto storico in cui furono promulgate, quando la donna non aveva alcuna voce in capitolo per quanto riguarda la sua libera scelta, né tra le mura domestiche né tantomeno nella vita pubblica.
Negli anni la figura di Eleonora d’Arborea divenne quasi una leggenda o per dirla con le parole del filosofo e politologo Carlo Cattaneo “la figura più splendida di donna che abbiano le storie italiane, non escluse quelle di Roma antica”.
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