(Foto credit: Riccardo Locci)

È il 1987 e il Napoli vince il suo primo scudetto. Maradona è all’apice della sua carriera calcistica e la città pullula di sciarpe, cappellini e bandiere tutte dedicate al mito biancoazzurro.

Proprio qui, gli inquilini di una palazzina di periferia, sono costretti ad andare via perché da lì a pochi mesi verrà costruita una sopraelevata, che spazzerà via per sempre il loro piccolo mondo. Tra questi c’è Anna, una tredicenne che non vede l’ora di diventare grande, tra un piano tutto da suonare e i trucchi rubati di nascosto a sua madre Susi.

Ma la giovane protagonista dovrà ben presto ricredersi dopo l’incontro con il Mariuolo, malavitoso che si rifugia nel quartiere e la condurrà ai confini dello spazio ristretto in cui è vissuta, fino a compiere quel passo che separa l’età dell’ingenuità dal mondo degli adulti.

“Piano piano”, presentato nella serata di domenica 7 maggio all’ultima edizione del Carbonia Film Festival, è il primo lungometraggio di Nicola Prosatore, regista napoletano noto per i suoi commercials, serie documentaristiche e programmi tv, da sempre affascinato dalla commistione di generi e narrazione pura. “Destinata Coniugi Lo Giglio” (2021), il suo secondo cortometraggio, è vincitore del Nastro D’Argento 2022.

Partiamo dal tuo primo lungometraggio “Piano Piano”. Tu che arrivi dal cortometraggio, come ti sei trovato in questo nuovo format?

È vero che ho fatto un paio di cortometraggi prima del film, però è anche vero che la mia esperienza prevalente è quella delle docu-serie. Rispetto al cortometraggio, la parte più faticosa è la recitazione perché chiaramente c’è la novità di lavorare con degli attori, tanti attori, un’attrice giovanissima come protagonista – praticamente da debuttante -, con tutto il film addosso. Poi al secondo posto c’è la sceneggiatura, perché per quanto avevo un’esperienza di minutaggi alti – anche più di un film -, in generale sulla docu-serie ti puoi sempre salvare, nel senso che anche se sono scritte e pre-prodotte, hai sempre dei piani B, mentre invece in un film – e questo lo sapevo bene – il piano B non c’è o comunque è in percentuale bassissima rispetto a una docu-serie, per cui quello che sbagli e quello che lasci per strada è quello che ti ritrovi poi al montaggio. Per il resto avevo già abbastanza confidenza con il set in generale, quindi quella parte devo dire che è andata molto liscia.

Da dove nasce questa storia? C’è stato un elemento in particolare che ti ha ispirato?

Avevo appena avuto la possibilità di fare un film, perché avevo finito il mio ultimo cortometraggio che era andato molto bene, quindi alcuni produttori mi avevano chiesto ma perché non fai un lungometraggio? Così mi son subito messo a lavorare su una storia di formazione, la storia di Anna, questa giovane principessa che passa al mondo degli adulti. Per cui, vuoi per coincidenza, la mia compagna dell’epoca, Antonia Truppo, che è co-soggettista e attrice nel film, mi racconta di questa sua esperienza personale: lei era di questo quartiere, Capodichino, e viveva in una palazzina che tra fine anni ‘80 e primi anni ‘90 era stata espropriata per lasciare spazio a una sopraelevata a scorrimento veloce per collegare in particolare Napoli città con la periferia e le zone Nord. Diciamo che è una vicenda molto controversa, di cui a Napoli si è parlato tanto perché poi alcuni sono rimasti lì fino agli anni duemila inoltrati. Era la storia di questo Stato che decide di espropriare e contro il quale tu non hai appello. Poi chiaramente non è che ti lasciano a terra, son stati dati degli indennizzi e case nuove, però questa cosa coatta, in un periodo di crescita e di trasformazione in questo piccolo castello, che in origine era una masseria, mi ha dato ispirazione. Sono partito da là che mi sembrava uno spunto interessante, poi piano piano si è trasformato.

Nel film la città di Napoli è protagonista nell’anno del suo primo scudetto, che sembrerebbe quello del riscatto. Soltanto qualche settimana fa un giovane ragazzo, figlio di un camorrista, è stato ucciso nel bel mezzo dei festeggiamenti proprio per la vittoria dello scudetto. La realtà ha superato la fiction? Che fine fa questa voglia di riscatto?

Sì il film, che io definisco una “favola iperrealista”, è comunque basato su aneddoti veri, personaggi veri, storie vere, quindi io ho lavorato e ho molto pensato alla “sostenibilità della realtà” delle storie che accadono e che il film affronta. Per cui quando ero al lavoro sulla sceneggiatura, e questo personaggio misterioso legato alla malavita doveva in qualche modo uscire di scena, mi son chiesto ma come faccio a far scomparire una persona? È stato un po’ ça va sans dire, durante la festa del Napoli, perché ho immaginato e ho ricordato com’è stato: confusione, fuochi d’artificio, felicità e spensieratezza. Mi son detto sembra perfetto o se non altro realistico. E poi sai come tutte le notizie brutte, perché è tristissima questa storia, non ci resta che scherzarci su perché è proprio tragicomico, perché è successa la stessa identica cosa. Parlando con un amico collega ho detto dovrei chiedere il copyright alla Camorra! Ma poi quello che impressiona è che non era mai successa una cosa del genere né nell’87 né nel ’90 ma in generale in nessuna manifestazione sportiva per il Napoli. Quindi possiamo dire che il film conferma di avere un forte spirito realista.

In questo film troviamo attori di nuovissima generazione come Massimiliano Caiazzo (“Mare Fuori”) e Dominique Donnarumma (“Il commissario Ricciardi”) accanto ad attori più esperti come Lello Arena e Antonia Truppo. Come la vedi questa commistione? E quali sono gli scambi sul set? 

Mi sono trovato molto bene, perché gli attori adulti li conoscevo tutti molto bene: con Lello Arena avevo già fatto un cortometraggio molto recitato, c’eravamo cercati da anni, e loro conoscevano molto bene il progetto. Stessa cosa per Giovanni Esposito e Antonia Truppo, che è co-sceneggiatrice. I ragazzi giovani sono una carica esplosiva oltre che tutti bravissimi. Ecco forse l’unico attore adulto che non conoscevo, e l’ultimo che è stato chiuso nel casting, è Antonio Di Matteo che interpreta il personaggio misterioso e che fa una parte molto importante. Mi sono trovato molto bene anche perché lui è abituato a lavorare con attori giovani, e soprattutto ci siamo ritagliati molto più tempo, perché poi aveva anche le scene più delicate.

Passiamo alle docu-serie, e in particolare quella su Vanna Marchi che ha avuto un grandissimo successo su Netflix. Perché hai voluto raccontare questa storia? Qual è il tratto di questo personaggio che affascina di più il pubblico tv?

Intanto devo fare una precisazione: io non sono autore della serie, l’ho scritturato, ma l’idea di base non è stata mia ma di uno stimato collegato, Alessandro Garramone, che ha una formazione giornalistica. Quando mi ha proposto di lavorarci, ho detto immediatamente sì. Prima di tutto perché mi piacciono moltissimo i personaggi e le storie chiaroscurali, con un contrasto molto alto di luci e ombre, e penso che Vanna Marchi lo sia. Aggiungo che mi piacciono moltissimo le storie, quindi anche in questo caso, come i personaggi si trovano a vivere le storie un po’ paradiso, purgatorio, inferno. E poi mi sembrava un tassello importante per raccontare anche una storia al femminile. Se ci pensi, in Italia non c’è una lunghissima storia di condanne nei confronti di donne, è abbastanza unico il suo caso. È una storia piuttosto controversa, e penso che noi l’abbiamo fatto in un modo abbastanza neutro, mettendo i fatti sul tavolo. Poi ognuno è libero di interpretarlo come vuole.

Ultima domanda sulla tua regia per il programma tv “Petrolio”, condotto da Duilio Giammaria su Rai 1, che si occupa di “estrarre” storie italiane che spesso rimangono nel sottosuolo. Qual è la puntata che ti ha colpito di più? Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?

Allora di storie, devo essere sincero, non me ne ricordo nessuna in particolare così come me le ricordo tutte. Come esperienza è stata assolutamente formativa per due motivi: primo perché non è stato l’unico programma che ho realizzato per la Rai, ma è stato sicuramente quello più importante perché c’ero dalle origini. L’abbiamo creato insieme al conduttore e gli altri autori. Spesso la Rai è spesso vista come se fossero un po’ degli “arronzoni” come si dice a Napoli, e cioè troppo superficiali. Io non sono assolutamente d’accordo. È una televisione generalista, che chiaramente come tutte le grandi aziende ha le sue controversie, le sue cose che non funzionano – che non giustifico – però secondo me fanno egregiamente il loro lavoro, e viva Dio che ci sia una televisione pubblica in Italia che alcuni Stati neanche hanno. Ho lavorato con persone molto valide e grandi professionisti. Ne ho un bellissimo ricordo.

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