”Senza distinziones curiales devimus esser, fizzos de un’insigna, liberos, rispettados, uguales”
Peppino Mereu
(Tonara, 14 gerrargiu 1872- 11 maltzu 1901)

Centocinquanta anni fa, il 14 gennaio del 1872, nasceva a Tonara, paese della Barbagia che con Fonni e Desulo è tra i più alti della Sardegna – Peppino Mereu, il poeta in lingua sarda più importante di sempre nonché l’autore di Nanneddu meu, diventato uno dei canti più popolari dell’Isola.

Peppino Mereu nacque a Tonara dal medico condotto del paese, ma non non ebbe una vita facile. Sesto di nove fratelli, si arruolò nell’Arma dei Carabinieri in cui rimase per cinque anni, di servizio in diversi paesi della Sardegna. È proprio durante la vita militare che il poeta prese coscienza anche dei problemi socio-economici dell’Isola e manifestò idee che si ispiravano al nascente movimento Socialista. Pur in contrasto con i suoi superiori dell’Arma, nelle feste di paese partecipava alle tradizionali gare di poesia estemporanea in competizione con poeti ben più anziani e quindi più preparati uscendone spesso vincitore.

Di salute cagionevole, durante l’ultimo anno della vita militare la malattia del poeta si fece più intensa: dopo aver trascorso vari periodi nell’infermeria presidiaria di Sassari e di Cagliari infine, fu congedato il 6 dicembre 1895. Rientrò a Tonara, precisamente a Muragheri (la frazione dove si trova la fonte di Galusè), vivendo una difficile condizione economica ed esistenziale.

Morì l’11 marzo 1901, a soli 29 anni. Dubbia è la causa della sua morte: le fonti più attendibili parlano di diabete. Nella sua breve esperienza terrena conobbe una Sardegna afflitta da fame, malaria e corruzione, e seppe raccontarla con straordinario realismo e sarcasmo. Affine agli scapigliati milanesi, la sua è poesia sociale, di protesta ma anche esistenziale.

Questa è la poesia che scrisse prima di morire: s’intitola Tittia.

Titti, itte notte infernale!
Su entu est in terribiles muilos,
astragadu est su meu cabidale
s’astragu mi lu sento fin’a pilos.
Como non app’isperanza chi sane:
prestu mi truncan sos debiles filos.
In sa bianca adde, addane addane,
annunziende sa triste fine mia
urulare s’intendet unu cane.
Titti, itte frittu, tittia tittia.

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