L’Aou di Sassari ha precorso i tempi dell’emergenza pandemica e già dal 2016 ha applicato, nell’ambito di uno studio internazionale, l’utilizzo nella pratica clinica del casco per la pressione positiva continua delle vie aeree (Cpap). È quanto emerge dallo studio Prism (“Postoperative continuous positive airway pressure to prevent pneumonia, re-intubation, and death after major abdominal surgery”) appena pubblicato su The Lancet, una tra le più prestigiose riviste scientifiche internazionali.

Il casco Cpap, o helmet come lo chiamano gli inglesi, è quello che tutti abbiamo imparato a conoscere in questo periodo pandemico e che è stato impiegato su vasta scala nei pazienti con gravi problemi respiratori, ricoverati nelle strutture intensive Covid.

«La formazione all’uso di tale presidio per la gestione dell’insufficienza respiratoria – afferma il direttore di Anestesia e Rianimazione dell’Aou, professor Pier Paolo Terragni – è stato fondamentale a rendere il personale medico e infermieristico già nel 2016 pronto per la sperimentazione, ma anche ad affrontare la successiva emergenza pandemica che, tristemente, ha insegnato a tutti l’efficacia della Cpap con casco».

IL CASCO

Il casco, come si evince dallo studio pubblicato su The Lancet, serve ad aumentare la pressione nei polmoni e alleggerire la respirazione difficoltosa del paziente colpito dalla polmonite o altre forme di danno polmonare, così da innalzare l’ossigeno nel sangue. Ed è proprio quello che è stato fatto nei pazienti ricoverati nelle terapie intensive durante il periodo della pandemia, con il virus che faceva scendere repentinamente i livelli di saturazione di ossigeno.

LO STUDIO

Prism è uno studio che ha coinvolto una popolazione molto ampia, 4806 pazienti, e ha interessato 70 ospedali di 6 differenti Paesi.

È stato realizzato tra il 2016 e il 2019 e ha preso il via anche a Sassari nelle sale risveglio (recovery room) dei blocchi operatori delle cliniche universitarie, compresa la Ginecologia dove sono state “arruolate” le prime pazienti.

«È nato dall’esigenza di prevenire le complicanze respiratorie, associate agli effetti dell’anestesia o della chirurgia, che – riprende professor Terragni – rappresentano un’importante causa di morbilità postoperatoria. Un sesto dei pazienti sottoposti a chirurgia maggiore, infatti, sviluppa complicanze respiratorie e infezioni postoperatorie prima della dimissione ospedaliera».

«Tra le tecniche – prosegue – è stata utilizzata la pressione positiva continua nel polmone (Cpap), impiegandola nell’immediato postoperatorio di interventi di chirurgia addominale maggiore».

Lo studio su The Lancet ha dimostrato che il trattamento Cpap ha un ruolo importante nel trattamento dell’insufficienza respiratoria postoperatoria mentre il suo uso preventivo routinario non è raccomandato.

«I punti di forza del Prism trial – aggiunge Pier Paolo Terragni – sono tanti e vanno dall’ampiezza della popolazione analizzata alla chiara definizione degli obiettivi preposti, ma la caratteristica che gli conferisce maggior merito è la sua natura pragmatica. È uno studio disegnato per dare risposte nella vita reale – conclude il docente – che tiene conto degli ostacoli incontrati durante la sua esecuzione nella pratica clinica quotidiana».

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