A Cagliari gli episodi di aggressione sessuale nei confronti di giovani ragazze si son fatti sempre più frequenti. Se i numeri dicono che la maggior parte delle violenze di genere avviene tra le mura di casa, l’impressione è che ora c’è chi si senta sempre più disinvolto nel molestare, aggredire e violentare le donne anche pubblicamente.

L’ultimo episodio è avvenuto il 5 febbraio scorso, alle 23,30 circa, in viale Trieste, quando una 18enne è stata afferrata per il braccio da un uomo 45enne di Sarroch, alla guida di un’auto, che con la scusa di offrirle un passaggio, voleva costringerla a salire sul mezzo. La giovane ha iniziato a urlare e l’uomo si è subito allontanato, facendo perdere le sue tracce.

Il 18 gennaio, attorno alle 22, è toccato a una ragazza di soli 16 anni. Mentre si trovava in piazza del Carmine in compagnia di alcune amiche, è stata avvicinata da un cittadino di origine nordafricana con la scusa di chiederle una sigaretta. Dopodiché l’ha abbracciata e palpeggiata, ma la giovane è riuscita a divincolarsi e chiedere aiuto.

Una settimana prima, verso le 20, una studentessa universitaria è stata aggredita da un uomo sui 30-40 anni, in via Cornalias, mentre si dirigeva verso la mensa di via Sulcis. La giovane ha denunciato subito il fatto alle forze dell’ordine e poi ha raccontato l’accaduto sui social per spingere anche le altre ragazze vittime di violenza a denunciare. “Ho provato a difendermi, di risposta lui mi ha inferto un colpo allo sterno. Nel tentativo di fuggire, mi ha acchiappato per lo zaino, ma questo rompendosi mi ha dato la possibilità di divincolarmi e scappare”, aveva scritto sul suo profilo social.

Un’escalation che ha iniziato a destare preoccupazioni tra le giovani residenti nel capoluogo sardo, ma che è comune a tante altre città italiane. Basti pensare al caso delle violenze di Capodanno subite da decine di ragazze che si trovavano in piazza Duomo, a Milano, per festeggiare con gli amici l’arrivo del nuovo anno. Un’immagine che, dopo gli episodi di Colonia del 2015, non avremmo più voluto vedere e che invece si sono ripetuti identici a quanto accaduto ormai sette anni fa. Allòra si diceva che “gli stranieri volevano le ‘nostre’ donne”, oggi c’è chi scrive che gli autori delle aggressioni nel cuore della città milanese, siano “figli di manovali”.

Sul caso è intervenuta anche Maria Letizia Pruna, conosciuta da tutti come Lilli Pruna, sociologa e docente all’Università di Cagliari, che a proposito della questione ha scirtto: “Vedo che ‘quei manovali di periferia’ ne La Repubblica di ieri sono diventati ‘quei giovani di periferia’ ne La Repubblica di oggi. Non c’è proprio bisogno di un disprezzo di mestiere né di classe per stigmatizzare la violenza maschile contro le donne, perché è trasversale ai mestieri e alle classi sociali, alle età e ai livelli di istruzione. Il disprezzo sociale espresso in ‘quei manovali di periferia’ fa riflettere, per la stupidità ma anche per la gravità”.

Da sempre attiva sulle tematiche sociali ed economiche, e in particolare quelle legate al territorio in cui vive, è molto attenta anche alla questione di genere su cui interviene pubblicamente sui suoi social, per proporre riflessioni e aprire dibattiti costruttivi.

Nell’ultimo periodo a Cagliari sembra esserci stato un aumento di casi di aggressione sessuale nei confronti di giovani donne residenti in città. Che idea si è fatta?

La situazione della violenza e dell’insicurezza per le ragazze che studiano all’Università di Cagliari, e che frequentano le mense, è grave. Queste strutture sono collocate perlopiù nei quartieri più problematici, e non capisco perché. Anche la nuova casa dello studente che verrà realizzata in viale La Playa, chissà se hanno pensato che ci saranno delle ragazze che dovranno attraversare quella strada per arrivare fin lì, e che cosa hanno pensato di fare per garantire la loro sicurezza. La cosa che mi sorprende è che l’Università non dica niente. Il problema che noi abbiamo è l’organizzazione della società nel suo complesso che non si fa carico di proteggere le donne, riducendo la loro esposizione a certi rischi. Ci sono le istituzioni, che separatamente dicono qualcosa, ma mai come intervento preventivo, ma solo quando i problemi sorgono e gli episodi si ripetono. Quindi, adesso, la responsabilità di assicurare che le studentesse dell’Università di Cagliari possano andare tranquillamente a mensa, chi ce l’ha? Non si può pensare che sia solo del Comune o dell’Ersu, perché anche l’Università in quanto tale dovrebbe farsi carico di questo problema. Le istituzioni dovrebbero incontrarsi e parlarsi e decidere come si può affrontare questa situazione: ad esempio, le strade devono essere illuminate, anche nei parcheggi, probabilmente ci devono essere dei controlli e si devono trovare delle soluzioni, che spesso sono soluzioni non particolarmente costose dal punto di vista finanziario. Non capisco perché i giovani devono sempre metterli nelle periferie. Cagliari è una città piena di edifici dismessi che potrebbero essere riutilizzati, però si pensa più agli alberghi di lusso e gli studenti vanno nelle periferie. Ma perché? Lo sappiamo che ci sono queste dinamiche, soprattutto in questo periodo.

Sì diciamo che l’Università poi ha fatto sapere che si sarebbe messa in contatto con le istituzioni e le forze dell’ordine per maggiori controlli. E così ha fatto il sindaco di Cagliari Paolo Truzzu. Il problema però nasce prima.

Il problema non è creare ghetti, né per i poveri né per gli studenti. Mi son sempre chiesta, a parte l’Ersu che fa delle scelte che spesso non capisco, ma perché non c’è un coordinamento con l’Università? Del resto l’accesso di molti studenti pendolari dipende dall’offerta di servizi dell’Ersu. Bisognerebbe capire che forse è ora di farlo, in considerazione del fatto che queste strutture, le mense, sono in condizioni piuttosto decadenti. Valutare ad esempio se di fronte a delle alternative non è possibile riportare verso il centro gli studenti e i servizi per gli studenti. Oltre al fatto che io ritengo, da molto tempo, che dovrebbero esserci delle mense pubbliche. Perché farle soltanto per gli studenti? Potrebbero essere anche per i docenti, potremmo mangiare insieme per cui i servizi potrebbero essere meno ghettizzanti, sia dal punto di vista della collocazione in città ma anche della destinazione degli utenti. Invece è tutto fermo.

Probabilmente non si può nemmeno parlare di città per gli studenti, se si pensa ai costi degli affitti, sempre più alti.

Sì ma infatti parlavano di Cagliari come città universitaria ma fa ridere pensarlo, perché abbiamo una situazione che secondo me è drammatica. E poi è intrisa di retorica. Non c’è un dialogo e un’azione comune, ognuno fa il suo, male, e i problemi non si risolvono mai. L’Università di Cagliari si è spesa tanto per fare questo piano per le pari opportunità, dopodiché rieleggono sei presidenti di Facoltà tutti uomini e tutto l’apparato per le pari opportunità non dice nulla. È una promozione vuota.

Noi ce ne siamo occupati, e tra le risposte c’è anche chi ha scritto che sono le donne stesse a non essersi candidate, quindi il problema sarebbe loro che non vogliono esporsi.

Sì poi ci sarebbe anche da vedere chi elegge chi. Sta succedendo un po’ come in politica, che quando il contesto delle relazioni ai vertici delle diverse istituzioni sono così avvelenate, poi una dice “ma a me chi me lo fa fare?”. Quindi questo è il sistema migliore per allontanare dalla politica e dalle istituzioni le persone perbene, e mantenerle nelle mani di persone che se va bene sono solo opportuniste e carrieriste, se va male sono anche incapaci e incompetenti. E spesso va male.

Viene un po’ da chiedersi, se non ci fosse stata la rettrice Maria Del Zompo, si sarebbero proposti gli asili nido all’Università di Cagliari? Un’iniziativa già attuata da diversi atenei italiani e pubbliche amministrazioni.

Sì io ho un’opinione un po’ critica su alcune cose che son state fatte in questo ambito, anche dal precedente rettore perché francamente queste stanze rosa e i parcheggi rosa non le posso vedere. È una affermazione delle disuguaglianze, questa. Non se ne rendono conto. Ma perché un padre o uno studente non può portarsi un bambino all’Università? Noi stiamo dicendo che sono le donne che se ne devono occupare. Ma cosa vuol dire la stanza rosa? Ma un padre che ha un passeggino che gira col bambino, non può parcheggiare anche lui? C’è una rigidità mentale. Un po’ come per i disabili. È un modo per sancire la disuguaglianza, afferma che quel compito spetta alle ragazze. Sono le stesse persone che poi parlano di genitorialità, di condivisione dei carichi di cura, e poi fanno queste cose. Ma allora facciamo le stanze per studenti e studentesse che hanno figli.

Una questione che andrebbe approfondita, quella della parità di genere all’interno delle università e in generale delle istituzioni. Pensiamo ad esempio, che in Italia la maggior parte dei laureati sono donne. Eppure quelle ai vertici son sempre meno rispetto ai colleghi uomini.

Sì si fa molta retorica su tante questioni che sono serie e importanti. Molta retorica, molta apparenza, così si dice che si fa questo e quell’altro. Le questioni che riguardano la disuguaglianze di genere sono trattate sempre con una specie di ritualità. In qualsiasi documento si deve scrivere da qualche parte che ci sarà una sessione per la parità di genere. È un interesse solo formale non sostanziale. E poi è proprio la società nel suo complesso che si deve far carico di proteggere le donne, le ragazze, le bambine e non esporle a dei rischi. In questo caso, la ragazza che è stata aggredita in via Cornalias, ha avuto la forza e il coraggio di denunciarlo perché si faccia qualcosa, ma se non si fa niente sono dei criminali, tutti quanti.

Vorrei farle un’ultima domanda riguardo l’aggressività anche tra giovani studenti. Da poco c’è stato un grave episodio fuori dall’Istituto alberghiero di Sassari, dove due ragazze di 16 e 15 anni si sono malmenate e poi è stato postato il video sui social.

L’aspetto perverso contemporaneo è quello del video, perché le ragazzine fuori da scuola si sono picchiate anche in passato. Non è una novità. Ci sono dei rapporti che passano anche attraverso un confronto di quel tipo, a quella età. Il problema è che ora viene data molta importanza all’apparire, soprattutto di eventi drammatici, perché non è che se due ragazze accompagnano una signora anziana per strada con le buste della spesa le riprendono col video e lo fanno vedere e diventa virale. C’è una attenzione fortissima per quegli episodi che attraggono perché sono drammatici, a volte feroci, a volte molto crudeli e quindi li filmano invece che intervenire, ma del resto funziona proprio così: c’è un ambiente impostato in questo modo. Anche gli adulti lo fanno, magari i genitori se vedono un incidente stradale lo filmano e lo mettono su qualche social. È un deterioramento complessivo anche dei criteri di valutazione, perché dovrebbe essere bello vedere una persona ferita? Ci ha mai fatto caso a quella trasmissione dove tutti ridono, con i video amatoriali fatti in famiglia? Là dentro c’è gente che si è sfasciata e non fa ridere per niente. È una cultura, c’è sempre questa cosa dell’apparire e avere i like, l’apprezzamento. Così queste forme di violenza oggi son sempre più enfatizzate, perché i social proteggono i vigliacchi e le vigliacche. È una questione anche di viltà. C’è un clima molto aggressivo, di violenza verbale che passa dai social alla realtà, confondendo la realtà con i social. E non viene scoraggiata.

Secondo lei la pandemia può avere influito in questo senso?

Sì io penso che molti ragazzi e ragazze hanno patito molto questo isolamento. A seconda dei caratteri, perché poi le persone son diverse, bisogna abituarsi anche ad accettare il fatto che nel mondo ci sono anche persone cattive, e che chi compie azioni crudeli siano per forza “matti”. Alcuni di questi giovani reagiscono con aggressività perché son stati compressi in tutto questo tempo. La pandemia ha segnato talmente tanto tutti, che chi ne ha risentito di più sono bambini, ragazzi e anziani. C’è però anche un’altra questione molto importante, che riguarda tutti questi giovani che vivono non in città, ma nei piccoli paesi della Sardegna. Che idee sono state messe in campo per loro? Quali sono le opportunità, non solo lavorative, ma anche di svago in questi piccoli centri? È logico che poi decidono di andar via, o di trovare dei passatempi poco raccomandabili. Non c’è nulla per loro, sono lasciati a loro stessi, in queste piazze, senza la possibilità di costruirsi un progetto di vita. Ecco, le istituzioni tutte dovrebbero ricominciare da qui.

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