Ci incontriamo in un pomeriggio soleggiato di metà dicembre in via Mancini, in pieno centro a Cagliari, mentre sta lavorando a un murale alto quanto un intero palazzo. Mauro Patta, originario di Atzara, è uno degli artisti sardi più conosciuti a livello internazionale e la sua ultima opera, che raffigura un artigiano intento a intagliare il legno, gli è stata commissionata da nientemeno che Ichnusa nell’ambito del progetto “100 muri 100 murales” ideato da Farmacia Politica.

Da sempre è affascinato dalla critica sociale e dal mondo rurale della sua terra e i soggetti dei suoi murales, che ha iniziato a dipingere dal 2014, ne sono la prova: tante le donne protagoniste che si rivolgono fiere di fronte ai passanti, tutte, o quasi, rigorosamente in abiti tradizionali sardi.

“Mi sono avvicinato a questa pratica per il suo ruolo sociale, lo stretto contatto con le persone e la possibilità di riqualificare spazi urbani. Creare un’opera per tutti, anche per chi non se la può permettere è una cosa impagabile e l’arte può essere il giusto carburante per i piccoli centri abitati che hanno fame di cultura, bellezza e confronto con l’esterno”, dice Patta. “Penso sia molto importante andare avanti senza dimenticare le proprie radici”, aggiunge.

Ma prima di arrivare fin qui, ha lavorato per ben quattro anni come pittore di porcellana alla Gucci Richard-Ginori di Sesto Fiorentino, per poi laurearsi nella Scuola di Pittura di Belle Arti di Firenze. Un lavoro che ha influenzato, e non poco, la sua scelta di utilizzare parti decorative più grafiche. Da qui nasce la sua perenne ricerca dei tessuti sardi che utilizza spesso nelle sue raffigurazioni, facendo molta attenzione alla composizione e cercando sempre dei tagli fotografici che aiutino l’opera a rimanere, come dice lui, “fresca”.

Ci troviamo dietro via Dante, in pieno centro a Cagliari. Come nasce questo progetto e in che modo la città accoglie il muralismo?

Questo è un murale che sto realizzando per Ichnusa. L’intento è quello di riuscire a portare la Sardegna dentro Cagliari, dove ho trovato una sorta di distacco tra la città e la tradizione isolana. Oltretutto siamo a cento metri da dove hanno cancellato il murale di Pinuccio Sciola, quindi sono molto contento anche per questo. Il soggetto principale di quest’opera sarà un falegname che sta intagliando il legno, una figura che un po’ si sta andando a perdere. Cagliari è una tela bianca da riempire, perché a dirla tutta ci sono dei palazzi orrendi. Non dico di andare nel centro storico, ma ci sono alcuni edifici enormi che sono delle tele cieche senza una finestra che non vedono l’ora di essere dipinti.

I protagonisti dei tuoi murales indossano i colori e gli abiti della tradizione sarda. Secondo te non è ormai un cliché?

Sicuramente nei paesi questo attaccamento è ancora molto vivo. È una cosa molto forte e le persone ne vanno molto fiere, si sentono proprio orgogliosi dei loro colori, dei loro ricami, della particolarità di ogni costume, perché quello di ogni paese è diverso dall’altro. Può essere anche un cliché, però ci sta anche spingere su questo perché io lavoro sulla ricerca delle nostre tradizioni in chiave contemporanea, che è un linguaggio che può raggiungere anche i giovani.

Si può dire che le donne dallo sguardo fiero sono i tuoi soggetti preferiti.

Sì mi piace rappresentare le donne perché, a parte che sono la cosa più bella da raffigurare, è un po’ un richiamo alla Sardegna in sé: noi abbiamo sempre avuto una cultura matriarcale, le donne hanno sempre avuto una grande importanza nel nostro territorio rispetto al resto d’Italia.

A proposito di donne, tra le tue ultime opere c’è anche l’omaggio a Grazia Deledda a Galtelli. Come hai scelto di rappresentarla?

Sì io e altri due artisti avevamo a disposizione un lungo muro all’ingresso del paese. Il progetto è stata un’idea del Comune che quest’anno ha voluto premere sui 150 anni dalla sua nascita: Galtellì è il paese dove Grazia Deledda ha vissuto per un certo periodo e dove ha ambientato “Canne al vento”. Per me è stato un onore rappresentarla, è stata la donna che ha portato a conoscere la Sardegna in giro per il mondo. Per l’opera ho scelto una gamma di colori molto delicati, che secondo me rispecchiavano quelli del romanzo: il rosa del tramonto e dell’alba. E poi ho trovato una similitudine anche con la delicatezza della sua scrittura, del suo modo di raccontarci la nostra terra, che ti fa capire certe cose che ti toccano lo stomaco.

Tra le altre raffigurazioni c’è anche quello di Antonia Usay, considerata una strega e per questo mandata al rogo nel Cinquecento. Dove hai recuperato questa storia?

Avevo già lavorato ad Aritzo e il sindaco mi ha raccontato di questa donna. Nel paese, infatti, ci sono delle carceri spagnole antichissime che risalgono all’epoca dell’Inquisizione, dove ci sono tre celle femminili, tra le poche in Sardegna. Tutte queste donne, che erano erboriste e persone di scienza in generale, venivano considerate dalla Chiesa delle streghe. In sardo noi diciamo bruxia, in spagnolo si dice bruja. E lì mi sono detto: parliamo di donne, ma in un altro modo. Quindi ho realizzato questo progetto a partire da un modello femminile diverso, coi capelli corti. Questo perché quando queste donne venivano incarcerate le spogliavano e le vestivano con quest’abito, che era un sacco con la croce di Sant’Andrea, e le tagliavano i capelli. Ho voluto fare una posa più moderna, perché il sacco era più lungo mentre io l’ho voluto rappresentare quasi come una minigonna, e poi l’ho fatta sedere sopra la lettera dell’inquisitore, ricopiata per filo e per segno, come se fosse la sua cella. La forma della casa richiama un po’ quella di una chiesa: dietro ho dipinto un cerchio con tutti i simboli medievali, che ricorda proprio il rosone di una chiesa. Diciamo che ho voluto spingere un po’.

Il muralismo conserva in sé tantissime storie, la nostra in primis. Come si comportano le istituzioni regionali a riguardo?

C’è stata un po’ di apertura negli ultimi anni, ma non grazie a chi si sta aprendo, ma a chi deve lavorare affinché gli altri facciano altrettanto. Anche gli artisti hanno cambiato stile, ci sono tanti contemporanei fortissimi che portano l’arte dappertutto. Io penso sempre questo: non sei mai considerato fino in fondo in casa. Ma è anche vero che quando inizi a portare l’arte fuori, come Tellas e Casciu tra gli altri, allora si crea una sorta di circolo per cui si inizia a pensare che questi artisti siano un valore per il territorio. Anche io sono entrato ora: non avevo lavorato a Cagliari, ma sono stato a Mosca, per dire. C’è sempre stato una sorta di pregiudizio, perché secondo me c’è stato anche un abbassamento del livello di qualità: si pensa che questo è un lavoro che possono fare tutti ma non è così. Bisogna studiare tanto, mettersi in discussione, per poter essere professionista. Questo un po’ in Sardegna ancora manca.

La questione della gentrificazione è molto sentita in questo ambito. Forse però in Sardegna servirebbe proprio il contrario, e cioé dipingere di più per attirare più persone.

Sì io con le mie opere voglio trasmettere la bellezza di quest’Isola. Quando qualcuno vede i murales si rende conto di vivere in un posto meraviglioso. È un modo di educare, perché se questo posto lo fai diventare così, cambi la mentalità delle persone. Io sono certo che i ragazzi più giovani quando vedranno questo murale ci penseranno due volte a fare delle scritte, perché per loro le tag sono una forma d’arte, e questa è un’altra forma d’arte. Quindi c’è una sorta di rispetto. Quando invece lo trovano vuoto, per loro è un posto brutto. Le tag sono anche un modo per dire “io esisto”.

Leggi le altre notizie su www.cagliaripad.it